Riceviamo e pubblichiamo di seguito l’intervento di Anna Fasoli, socio UEA.
L’assicurazione è un motore. Un motore economico, certamente, ma anche un motore propulsivo di progresso. L’assicurazione come forza capace di assecondare e stimolare lo spirito d’iniziativa, accentuando l’intraprendenza, riequilibrando le sperequazioni, fungendo da enorme collettore di ridistribuzione del rischio, da un lato, di canalizzazione del risparmio privato verso investimenti produttivi e utili socialmente dall’altro.
No, non ho perso la mia proverbiale concretezza. Non mi sono lasciata attrarre da speculazioni filosofiche. È che ho avuto modo di rileggere buona parte della nostra storia assicurativa e ne sono rimasta affascinata.
Siamo nati come istituzione spontanea, che ha scelto di interpretare e salvaguardare il bisogno di sicurezza dei gruppi. E di quel bisogno abbiamo fatto, presto, prestissimo, un business, per dirla con un termine moderno, frutto però di un intreccio di fattori, che vanno sottolineati. O il rischio è che si perda non solo la consapevolezza delle potenzialità espresse, ma anche di quelle da esprimere.
È sull’assicurazione quale sintesi, sommatoria di elementi contrastanti, complessi, di interessi, bisogni, concretezza e finalità profonde che vorrei riportare l’attenzione e lo sguardo generale. Non per un mero gusto archeologico, per una squisita contemplazione in sé. Ma perché è a questo crogiuolo di motivazione che attingiamo quotidianamente: quando proponiamo un contratto ad un cliente, quando adeguiamo una copertura alle sue esigenze specifiche, quando ci scervelliamo alla ricerca di soluzioni e di garanzie, cui talvolta la legge non ha ancora pensato e che tuttavia sono per quel cliente necessarie ad intraprendere la propria attività.
L’alta finanza ha imperativi differenti
A questo crogiuolo di motivazioni, che hanno segnato la nostra storia sin dall’inizio, sarebbe importante si riferissero di continuo anche coloro che siedono nelle “stanze dei bottoni” assicurativi. Quelle teste pensanti che, oggi, per l’andamento dell’economia e per la complicata rete dei rapporti di potere, appaiono sempre più orientate verso funzioni di alta finanza, di strategie globali di interessi da far quadrare. Interessi che hanno il nome degli azionisti, dei fondi, dei finanziatori. Interessi che chiedono competenze di strategia “bellica”, insomma. Meno, per quanto sta accadendo, di assicurazione e di matrici storiche, di ruolo sociale, di funzioni propulsive.
Ma così facendo qualcosa non quadra. Ed è di nuovo la storia a parlare. Questa volta una storia recente, anzi cronaca. Mi riferisco al caso di Generali, battezzato da numerosi quotidiani economici come il tramonto del Leone. Cito, naturalmente, il caso Unipol-Fonsai, le cui ultime pieghe stanno rivelandosi ancora più spinose di quanto già conosciuto.
Che cosa hanno in comune le due vicende? Nelle pur molteplici differenze un elemento lo si trova, con estrema evidenza: è la con-fusione, il confluire di azioni, per natura differenti, in una stessa funzione decisionale. E differenti è forse termine troppo morbido, talvolta le funzioni sono persino incompatibili. O lo diventano nei periodi di ristrettezza, di difficoltà, di penuria, quando ciascuno è indotto, inevitabilmente, a “portare acqua al proprio mulino”.
È quanto sta accadendo agli interessi finanziari e quelli assicurativi, che si scontrano in un medesimo consiglio di amministrazione. Là dove la finanza è speculazione, gioco infinito di vendita e acquisto, l’assicurazione ha un ruolo economico e sociale preciso.
Mutualità, si dice, parlando di noi, ad indicare la comunione di pericolo e la ripartizione tra tutti i componenti del gruppo del danno eventualmente occorso al singolo. Garanzia, che chiarisce come il rapporto di assicurazione sia caratterizzato da uno squilibro di posizioni, esaltando il compito di protezione di chi è in grado di prestarlo a favore di chi lo domanda. Certo, non manca la contrattualizzazione del rischio, propria di una logica mercantile, ma grazie a questa, si agevolano e si incoraggiano le operazioni incerte e quindi l’intraprendenza che fa da volano al progresso di una società.
A leggere Montesquieu…
“Chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti […]. Perché non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere”. Così scriveva nel 1748 il Barone di Montesquieu, ritenuto il padre moderno della teoria della divisione dei poteri.
Mica male questo pensatore settecentesco, capace di identificare un meccanismo psicologico e umanissimo, un meccanismo che non ha colpe in sé, perché, appunto, umano e persino, si potrebbe azzardare, naturale: quel bisogno di portare avanti il proprio compito specifico, di realizzare il proprio obiettivo. Ed è questo il vero spartiacque che sta creando tanto scompiglio nel nostro universo assicurativo: l’obiettivo.
Posso dire che il nostro deriva da quella storia che situa il primo contratto assicurativo vero e proprio nel mondo dei traffici marittimi e lo fa prestando una garanzia, una garanzia contro un rischio. Aiutando in maniera tanto pregnante lo sviluppo commerciale, che nel Seicento le assicurazioni erano considerate “fondamento necessario alli negotii, alla Mercanzia e alla Navigazione”.
Su questa funzione, che ha avuto da subito un contenuto contrattuale, cioè di tornaconto anche per l’assicuratore, si è dunque innestato il circolo virtuoso di più ampio respiro, propulsivo, sociale, di sviluppo.
Quel circolo virtuoso che ha condotto a grandi conquiste, poi divenute, in alcuni casi, legge. Penso alla RC obbligatorie per legge, da quella contro gli infortuni sul lavoro, perfezionata in Italia nel 1935, a quella automobilistica, alla più recente in tema di professionalità. In questi casi la funzione è stata di marcato impegno anche educativo, di orientamento del pensiero anche giuridico. Di conquista, in una parola – conquista sociale, progresso. Ad alto contenuto di futuro insomma.
E oggi?
Come possiamo iscrivere le nostre azioni in questo “blasonatissimo” albero genealogico se dimentichiamo che i nostri antenati assicuratori avevano sì un occhio al portafoglio, ma uno altrettanto attento alle idee forti di sviluppo?
Come associare i nostri gesti professionali quotidiani a quelli che ci hanno preceduto per coniugare terra e cielo, concretezza e aspirazioni?
Beh, da “artigiana delle idee”, o “idealista della concretezza”, da “muratore dei pensieri assicurativi” quale mi sento ogni giorno, credo che la strada continui ad essere quella di sempre: la strada dell’appartenenza. Appartenenza ad un gruppo che sia capace di farci sentire parte e quindi di esprimere i nostri interessi, di offrire idee alle nostre problematiche, di guardare insomma nella medesima direzione. Che è, come ripeto, quella della mutualità, della garanzia, certo anche della speculazione del rischio, ma una direzione che tiene conto dell’orgoglio – sì,: l’orgoglio – di appartenere ad una funzione che, con pragmatismo, con imprenditoria e con un meraviglio savoir faire pratico, ha saputo scrivere pagine bellissime di storia contrattuale, di storia sociale, di storia del progresso, di storia della giustizia. Anche di storia delle idee.
È proprio qui, nel terreno del fare, che nascono spesso le idee, e sono idee che diventano progetti, diventano talvolta leggi, diventano abitudini consolidate, prassi acquisite in un gruppo sociale. Perché danno frutti. In termine di benessere, di sviluppo, di sicurezza.
Ecco questa è la nostra radice assicurativa. E la pura finanza mi sembra c’entri poco.
La pura finanza monta e smonta pacchetti azionari. La pura finanza crea collegamenti tra contenitori. Non importa di che cosa si occupino, quei contenitori, se di immobili, di petroli, se di beni al consumo, o di mutui e prestiti.
La pura finanza, certo, ha il sacrosanto diritto di fare il proprio mestiere. Ma deve rimanere separato, quel mestiere, dal nostro di assicuratori.
Secondo il principio del barone di Montesquieu: a ciascuno il proprio (mestiere). Solo così ciascuno saprà farlo al meglio. Senza conflitti, senza contraddizioni (e senza illeciti). E noi assicuratori di cose (grandi) nei piccoli gesti di tutti i giorni abbiamo voglia di farne tantissime.