Dietro il maxiemendamento dell’esecutivo si nascondono una serie di vere e proprie imposte patrimoniali. Quasi tutte le misure antievasione introdotte tramite le modifiche dell’ultima ora alla manovra di ferragosto, sono, infatti, finalizzate a tassare o comunque ricercare patrimoni da tassare più che veri e propri redditi. Qualche esempio? L’inasprimento della tassazione sulle società di comodo che proprio per la loro configurazione fisiologica non producono redditi, ma detengono patrimoni. Le norme che introducono l’obbligo di segnalare nella dichiarazione dei redditi tutti i rapporti finanziari intrattenuti dal contribuente con gli intermediari abilitati (banche, poste italiane, finanziarie ecc.). Anche in questo caso il fisco non cerca redditi aggiuntivi da tassare, bensì notizie sui luoghi fisici presso i quali il contribuente detiene la propria ricchezza o, per dirla meglio, il proprio patrimonio mobiliare e finanziario. Infine, le norme che assoggettano a tassazione i beni dell’impresa attribuiti in godimento a soci e familiari. Anche in questo caso l’oggetto del prelievo non è il reddito prodotto da tali beni, ma la manifestazione di ricchezza rappresentata dal valore dei beni stessi cioè dal loro valore patrimoniale.
Certo nessuna imposta patrimoniale in senso tecnico è stata varata dall’esecutivo con le misure contenute nel pacchetto di emendamenti presentato giovedì scorso al senato. Sono gli effetti combinati delle disposizioni introdotte che finiscono per colpire e assoggettare, più o meno direttamente, a prelievo fiscale non veri e proprio redditi, ma i patrimoni posseduti da imprese e persone fisiche.
Del resto una prima imposta patrimoniale l’esecutivo in carico l’aveva già introdotta con la prima manovra correttiva dell’estate 2011 (dl 98/2011). Il riferimento ovviamente è all’aumento delle imposte di bollo sui dossier titoli posseduti dai contribuenti. È ovvio, infatti, che si tratta di una vera e propria imposta di natura reale destinata a colpire in maniera proporzionale il valore patrimoniale del conto titoli detenuto dai contribuenti presso gli intermediari finanziari.
Ma torniamo alle patrimoniali nascoste nelle pieghe del maxiemendamento alla manovra-bis.
Società di comodo. La stretta sulle società non operative consiste nell’assoggettare il reddito delle stesse a un prelievo aggiuntivo dell’imposta sul reddito delle società nella misura del 10,50%. Se le norme introdotte verranno dunque approvate a titolo definitivo, l’imposta sul reddito delle società di comodo, così come definite dall’articolo 30 della legge n.724/1994, salirà dall’attuale 27,50 al 38%. Detta così sembrerebbe nient’altro che una maggiorazione dell’aliquota dell’imposta sul reddito di tali soggetti sullo stile dell’abrogato contributo di solidarietà. A ben vedere però il reddito delle società non operative è un reddito puramente fittizio determinato applicando percentuali prefissate dalla norma sopra citata ai vari tipi di asset patrimoniali detenuti dalle stesse. L’aumento del prelievo su tali redditi meramente figurativi assume dunque le caratteristiche di una vera e propria tassazione reale dei patrimoni posseduti dalla società non operativa.
Stesse considerazioni anche per la parte dell’emendamento che definisce società di comodo tutti quei soggetti collettivi che producono perdite per tre periodi d’imposta consecutivi oppure per due periodi e per il terzo un reddito comunque inferiore a quello minimo presunto. Ovvio infatti che se tali società perdono assoggettarle alla disciplina delle non operative significa creare fittiziamente un reddito fiscale minimo imponibile che si traduce, di fatto, in un’imposta sul patrimonio dalle stesse detenuto con le caratteristiche di una vera e propria imposta patrimoniale.
La stretta sui beni dell’impresa. L’emendamento dell’esecutivo prevede un giro di vite sulla tassazione dei beni dell’impresa concessi in godimento a soci o familiari dell’imprenditore. In queste ipotesi infatti quando il corrispettivo previsto dall’impresa per tale assegnazione in godimento risulta inferiore ai valori di mercato scattano, conseguenze negative sia per l’impresa che il socio o familiare che utilizza i beni. Per l’impresa infatti i costi relativi ai suddetti beni concessi in godimento a un valore inferiore a quello di mercato saranno fiscalmente indeducibili con un aggravio quindi sulla tassazione annuale. Per i soci o i familiari invece la differenza fra valore contrattualmente pattuito per il godimento e quello di mercato costituirà un reddito diverso da assoggettare a tassazione.
Anche in questo caso è abbastanza evidente come, dietro a norme che formalmente tassano redditi, in realtà l’oggetto imponibile è il bene concesso in godimento. Il reddito fittizio costituito dalla differenza fra quello di mercato e quello pattuito è solo un’astrazione giuridica che si traduce, nei fatti, in una imposta reale sul valore del bene concesso in utilizzo al socio o al familiare dell’imprenditore.
Indicazione conti correnti. Una volta approvata la manovra di ferragosto i contribuenti saranno chiamati ad indicare nel loro modello di dichiarazione gli estremi dei rapporti dagli stessi intrattenuti con gli intermediari finanziari di cui all’articolo 7, comma 6, del dpr 605/73 (anagrafe tributaria). La norma ha essenzialmente due finalità: spaventare i contribuenti costringendoli a rendere noti al fisco i rapporti finanziari in essere (cosa che per altro l’amministrazione finanziaria già conosce sulla base delle segnalazioni periodiche imposte agli stessi intermediari finanziari) e creare i presupposti per una veloce e rapida aggressione dei patrimoni mobiliari detenuti su tali rapporti. Aggressione che avverrà grazie alla funzione di selezione delle posizioni a rischio che la norma attribuisce a tale disposizione. Se non è una vera e propria imposta patrimoniale è comunque la premessa per una sua futura istituzione.
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