L’emergenza Coronavirus è tutt’altro che rientrata e le aziende chiedono aiuto ai giuslavoristi
Pagine a cura di Antonio Ranalli
Sicurezza sul lavoro, Covid-19 e contenzioso. Non si ferma il dibattito sulle novità normative in materia di sicurezza sul lavoro introdotte in seguito all’emergenza sanitaria Covid-19, tenendo anche conto di una possibile recrudescenza della pandemia nelle città e sui luoghi di lavoro. Quali le responsabilità per i datori di lavori per la gestione delle misure di prevenzioni della diffusione del virus? Lo abbiamo chiesto ad alcuni dei maggiori giuslavoristi italiani, che in questi mesi hanno dovuto affiancare le aziende nelle decisioni relative alla gestione dell’emergenza Coronavirus.
«Gran parte della normativa emergenziale emanata per contenere e contrastare la pandemia da Covid-19 ha imposto misure obbligatorie di salvaguardia della salute pubblica che hanno costretto la collettività tutta a confrontarsi con dispositivi di protezione personali (mascherine e guanti) e procedure di sicurezza (igienizzazione frequente delle mani, misurazione della temperatura corporea, distanziamento fisico) di chiaro stampo preventivo-protettivo tipicamente lavoristico», spiega Francesco Bacchini, professore di diritto del lavoro all’Università di Milano-Bicocca e responsabile de dipartimento sicurezza dello studio legale Lexellent. «Poiché mai come in questi mesi la tanto invocata (ma spesso carente) cultura della sicurezza sul lavoro è stata anche patrimonio di conoscenze diffuse e generalizzate che hanno, giocoforza, riguardato tutta la popolazione e non solo i lavoratori, è legittimo nutrire la speranza che il doveroso rispetto delle regole di tutela dell’integrità fisica, sia propria che degli altri consociati, possa diventare un tratto saliente del vivere civile, ossia possa assurgere a dovere sociale al quale tutti, siccome cittadini, si sentono tenuti, soprattutto, ma non solo, sul posto di lavoro».
Per Giuseppe Cucurachi, socio e responsabile del dipartimento lavoro di Nunziante Magrone «il rischio per il lavoratore di contrarre il Coronavirus in «occasione di lavoro» pone alcuni interrogativi sul perimetro della posizione di garanzia ascritta al datore di lavoro in tema di salute e sicurezza dei propri dipendenti, in un quadro in cui la relativa assunzione di responsabilità non può certo essere illimitata. A partire dalla situazione di incertezza, particolarmente elevata, in cui si muovono le imprese che operano in diverse sedi e aree geografiche: assistiamo infatti al sovrapporsi, spesso disallineato, di regole locali, stabilite dalle delibere regionali relativamente a specifici settori, con la normativa nazionale, che a sua volta dispone precise misure di sicurezza da seguire, in particolare quelle definite con il protocollo sanitario del 24 aprile scorso. Altro fattore da considerare è la tendenziale deresponsabilizzazione dei lavoratori nell’esporsi al rischio, che impone, al fine di assicurare il concreto rispetto delle misure di prevenzione che il datore ha disposto e comunicato, un particolare rigore nelle attività di vigilanza sui dipendenti e sulle loro condotte nei luoghi di lavoro. V’è, poi, un’ultima considerazione: anche il datore di lavoro che riesca ad assicurare il rispetto delle regole nella cerchia dei suoi dipendenti incontra il limite empirico di un ambiente, quello di lavoro, che per quanto chiuso, entra ed entrerà sempre in contatto con soggetti terzi, ed è proprio questa interazione, tra loro e lo staff, che rende la garanzia dell’incolumità ancor più difficile da realizzare».
Per Gianluca Mulè, counsel di Tonucci & Partners «un datore di lavoro può essere astrattamente ritenuto responsabile, sia civilmente che penalmente, per gli eventuali contagi occorsi ai propri dipendenti, avendo egli il dovere di evitare gli infortuni (e la nozione di «infortunio sul lavoro» include anche le patologie infettive come il Covid-19) che si verificano «sul luogo di lavoro» (quindi anche a soggetti terzi). Dalla responsabilità penale del datore di lavoro può inoltre originare una responsabilità della società ai sensi del dlgs n. 231/2001, in relazione ai reati in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, con sanzioni pecuniarie ed interditti ve molto rilevanti. Per poter scongiurare il rischio di responsabilità civili e penali, è necessario: assicurare il rispetto della normativa vigente in materia di prevenzione del contagio; elaborare e attuare un Protocollo aziendale per la prevenzione della diffusione del virus, che sia conforme il Protocollo nazionale, come periodicamente aggiornato; valutare l’aggiornamento o l’integrazione del proprio Dvr e, se del caso, del proprio Modello Organizzativo, coinvolgendo sul piano informativo l’Organismo di Vigilanza».
La qualificazione dell’ammalamento da Covid-19 come infortunio, a seguito della disposizione contenuta nell’art. 42 comma 2 del D.L. n. 18/2020 convertito nella legge n. 27/2020, ha posto una serie di interrogativi e fatto nascere considerevoli preoccupazioni in capo ai datori di lavoro. «Alla norma che ha parificato la malattia all’infortunio sono seguite varie circolari dell’Inail che, in luogo di tranquillizzare gli operatori, li ha ancor più preoccupati atteso che, nella sostanza, l’istituto ha, in un primo momento, rilevato che l’ammalamento/infortunio poteva essere ricondotto, quanto alla responsabilità, in capo al datore di lavoro utilizzando come dimostrazione le prove presuntive», spiega Paolo de Berardinis, partner dello studio de Berardinis Mozzi, «questa opinione è apparsa francamente non accettabile. In seguito L’Inail ha rivista la posizione tanto da far ritenere che «l’adozione scrupolosa delle misure di prevenzione contemplate nel Protocollo sottoscritto dalle parti sociali in data 14 marzo 2020, possa escludere il nesso eziologico tra l’ammalamento/infortunio e il luogo di lavoro. Senza sottovalutare il fatto che una simile posizione lascia certamente più tranquilli, quantomeno in merito a quello che potrebbe essere l’approccio dell’Inail, ci si deve chiedere se questa sia, o meno, una posizione corrispondente a quanto la legge dispone».
Secondo Vincenzo Fabrizio Giglio, partner di Lexia Avvocati «nell’immediato, l’Istituto ha riconosciuto la tutela assicurativa per tali casi per i contagi in itinere, sollevando le proteste dei rappresentati dei datori di lavoro. Il legislatore è tuttavia intervenuto sul punto con una disposizione che cerca di conciliare due opposte esigenze: la tutela dei lavoratori che contraggano il contagio e la tutela dei datori contro azioni risarcitorie da parte dei dipendenti e contro azioni di regresso da parte dell’Inail, che presuppongono la condotta colpevole del datore. La responsabilità datoriale per i danni da Covid-19, dunque, potrà essere limitata ai soli casi di violazione della legge o degli obblighi rinvenibili nei citati protocolli e linee guida».
Per Guido Callegari, partner di De Berti Jacchia «l’infezione da Covid-19 contratta in occasione di lavoro costituisce poi infortunio sul lavoro, con la relativa tutela assicurativa. Il datore di lavoro potrebbe esserne riconosciuto responsabile, sia civilmente che penalmente, qualora ne venisse accertato il dolo o la colpa nella predisposizione, nell’applicazione e nel controllo dell’osservanza delle misure di sicurezza. Di qui, la necessità per il datore di lavoro di tracciare tutte le misure adottate per fronteggiare il rischio del contagio. Il governo ha anche dato forte impulso al lavoro agile ed è da presumersi che tale modalità lavorativa andrà sempre più consolidandosi. Per il lavoro agile il problema della sicurezza sul lavoro è di meno semplice soluzione perché la prestazione o una sua parte viene resa in luoghi sui quali il datore di lavoro non ha controllo. Allo stato attuale, la legge prescrive al datore di lavoro di dare con cadenza annuale al dipendente un’informativa scritta dei rischi e l’Inail, sul proprio sito, ne ha messo a disposizione un modello di non trascurabile dettaglio. L’informativa, però, è cosa diversa dalla concreta predisposizione di misure per il contenimento dei rischi e dalla sorveglianza sulla loro effettiva applicazione, attività queste ben difficilmente espletabili in luoghi altrui».
Ancor più di prima, oggi, a seguito dell’emergenza Covid, le aziende sono chiamate a implementare i propri protocolli adeguando le misure in tema di sicurezza da recepire anche nel Dvr. «L’art. 29 bis della legge di conversione del Decreto Liquidità», spiegano Cristina Catalano e Massimiliano Lissi partner di Talea Tax Legal Advisory, «nel sancire che l’adozione del protocollo condiviso del 24/04/2020 rende le aziende adempienti all’art. 2087 c.c., ha semplificato l’individuazione delle misure necessarie e limitato il rischio di contenzioso quanto meno civilistico. Resta una potenziale responsabilità penale del datore di lavoro, quantomeno colposa, per lesioni personali gravi/gravissime o omicidio colposo in caso di dimostrata inadeguatezza dei protocolli con possibili implicazioni sotto il profilo della responsabilità amministrativa degli enti ex dlgs 231/2001».
«In caso di contagio accertato sul posto di lavoro e di mancata adozione delle misure previste nei citati protocolli, il datore di lavoro è civilmente e penalmente responsabile dei danni all’integrità fisica patiti dal dipendente», afferma Matteo Amici, senior advisor di Andersen. «A mio parere è necessaria una corretta informazione dei dipendenti e dei professionisti sulla diffusione dell’epidemia e sui rischi di contagio. Purtroppo, come segnalato anche dall’Inail in un documento pubblicato in aprile di quest’anno, soprattutto attraverso i social network, vi è stata una massiccia diffusione di fake news sull’argomento che hanno inevitabilmente condizionato anche i comportamenti delle persone. L’istituto parla in proposito di «infodemia» che non di rado, purtroppo, ha condizionato anche i comportamenti delle persone».
Durante l’emergenza sanitaria conseguente alla diffusione del Covid-19, la sicurezza sul luogo di lavoro è stata determinata dall’applicazione quotidiana delle misure previste dai protocolli sicurezza emanati dal Governo Italiano. «Dopo un primo momento di incertezza, è stata introdotta una norma che limita le responsabilità civili nel caso in cui dovesse essere contratto il Covid-19 sul luogo di lavoro al mancato rispetto di tutte le prescrizioni contenute nei protocolli e nelle linee guida di settore che, dunque, divengono condizione necessaria per escludere profili di rischio», spiega Paola Tradati, equity partner e responsabile del dipartimento di diritto del lavoro di Gatti Pavesi Bianchi, «Si tratta di un intervento legislativo positivo che, tuttavia, non chiarisce in via definitiva il quadro poiché la formulazione spesso interpretabile, se non addirittura approssimativa, dei protocolli, può portare a contrasti e, pertanto, a possibili attribuzioni di responsabilità. Ora che sono cadute tutte le limitazioni agli spostamenti e al normale svolgimento dell’attività di impresa, rimane auspicabile una riflessione convinta tra le parti sociali in merito a quella che sarà l’organizzazione del lavoro fino alla definitiva scomparsa del virus Covid-19».
Il rischio di contagio da Covid-19 non è confinato a determinati ambiti, ma è trasversale a tutte le attività produttive e mansioni. «La legislazione attuale in materia di prevenzione del rischio da contagio è purtroppo – come spesso accade d’altra parte – piuttosto frammentaria e poco precisa», prosegue Linda Berturazzo, partner dello studio Picchi, Angelini &Associati, «nei mesi dell’emergenza molteplici disposizioni si sono succedute e alle volte sovrapposte. In alcuni casi si rinvengono disposizioni che necessariamente si devono considerare sorpassate, come il divieto della formazione professionale in presenza o delle trasferte di lavoro, quando in realtà viene oramai consentito – osservando precauzioni minime – di frequentare bar, ristoranti, luoghi di culto, e viaggiare per motivi di piacere. In merito al quesito assai dibattuto se il rispetto dei Protocolli di sicurezza fosse sufficiente ad escludere la responsabilità dell’imprenditore in caso di contagio da coronavirus sul luogo di lavoro, è noto che l’art. 29 bis del decreto del D.L. 23/2020 (come convertito dalla legge 5 giugno 2020, n. 40) ha fatto chiarezza sul punto, consentendo di rispondere affermativamente. Considerando che tra le sanzioni per il mancato rispetto del Protocollo di sicurezza vi è la sospensione dell’attività, è evidente come il rischio principale che corrono le imprese sia quello legato al non pieno rispetto delle relative disposizioni».
L’adozione delle misure previste nei Protocolli deve essere adattata alla specificità dell’attività di impresa, ai processi produttivi e al loro modo di esplicarsi nella concreta attività. «Adattamento questo necessario per escludere le richiamate responsabilità in caso di evento di contagio sul luogo di lavoro, prosegue Donato Varani dello Studio Annunziata&Conso, «nell’ambito delle analisi preliminari all’adozione delle misure previste dai Protocolli è inoltre importante considerare anche la situazione dei singoli lavoratori in merito ad esempio al loro stato di salute o alla loro ubicazione lavorativa rispetto al luogo di lavoro. Al fine di applicare in modo conforme le misure previste nei Protocolli, sono chiamate a collaborare strettamente con il datore di lavoro anche le altre figure previste dalla Testo unico sulla salute e sicurezza, prevedendo altresì che venga costituito in azienda un Comitato per l’applicazione e la verifica delle regole del Protocollo anche se non viene definito il meccanismo di nomina dello stesso e la sua relazione con gli altri organi aziendali».
In tema di sicurezza sul lavoro, la normativa emergenziale ha introdotto molte novità. «In primo luogo, sono cambiate le misure per l’accesso e la permanenza nei luoghi di lavoro: il Protocollo 24 aprile 2020, integrativo del protocollo 14 marzo 2020, reso obbligatorio per tutte le aziende dal Dpcm del 17 maggio 2020, ha fornito precise indicazioni in relazione alla sanificazione degli ambienti, alla gestione degli spazi comuni e all’utilizzo dei dispositivi di protezione da parte di tutti coloro che accedono ai locali aziendali», spiega Giampaolo Furlan, partner dello Studio Legale Galbiati Sacchi e Associati. «Proprio per favorire l’applicazione delle nuove norme, l’art. 95 del Decreto Rilancio ha previsto interventi straordinari destinati alle imprese ai fini dell’adozione di strumenti volti alla riduzione del rischio di contagio. Il datore di lavoro è poi tenuto a provvedere all’aggiornamento del Documento di valutazione dei rischi (Dvr) per la presenza del nuovo rischio biologico derivante dall’epidemia Covid-19. Inoltre è stato valorizzato il ruolo del medico competente, soprattutto con riferimento alla sorveglianza sanitaria dei dipendenti».
Le richieste delle imprese sono rimaste piuttosto inascoltate. «Difatti, poiché i protocolli citati contengono molte prescrizioni, dai contenuti spesso troppo elastici e generali, il meccanismo in essere è rimasto invariato», spiega Francesca Tironi di PwC TLS Avvocati e Commercialisti, «già secondo la normativa vigente – dall’art. 2087 del codice civile, al T.U. della sicurezza sul lavoro del 2008 – il datore di lavoro è tenuto ad adottare ogni misura connessa alle specificità della propria organizzazione e al caso concreto, nonché alle indicazioni dell’autorità sanitaria o agli standard scientifici, in continua evoluzione. Un simile principio, adattato alla situazione eccezionale e altamente mutevole, in cui ci troviamo (e che non sappiamo quanto durerà), comporta una sostanziale impossibilità per le imprese di programmare con ragionevole anticipo le misure necessarie alla prevenzione o gestione di pandemie simili a quella che stiamo vivendo. In sintesi, sarà necessario un continuo aggiornamento delle prescrizioni in materia di sicurezza, rispetto alle quali si rischia di essere sempre in ritardo».
In ultimo l’emergenza sanitaria ha costretto le imprese a sperimentare il ricorso a forme di lavoro agile e ciò ha comportato la necessità di aggiornare i Dvr e di adottare idonee misure al fine di garantire medesime tutele dal punto di vista della salute e della sicurezza ai lavoratori in smart working. «La normativa emergenziale obbligando le imprese ad adottare e implementare le misure di prevenzione idonee a contenere il contagio e a documentarle», spiega Pietro Montella, founding partner di Montella Law, «ha fatto sorgere il dubbio sulla necessità o meno di aggiornare il Dvr sul rischio da contagio da Covid-19, sebbene l’Ispettorato del lavoro abbia evidenziato di «non ritenere giustificato l’aggiornamento del Documento in relazione al rischio associato all’infezione» in luoghi diversi dagli ambienti di lavoro sanitario o socio-sanitario o qualora il rischio biologico sia un rischio di natura professionale, già presente nel contesto espositivo dell’azienda».
Tema poco affrantato è quello riguardante la sicurezza sul lavoro in caso di smart working. «Anche le «Iniziative per il rilancio 2020-2022» (c.d. piano Colao) sottoposte al Governo», conclude Valentina Pepe, partner dello studio Pepe & Associati, «propongono l’esclusione del contagio Covid da responsabilità penale del datore del lavoro per le imprese non sanitarie.. Sappiamo che, con l’avvento del lavoro agile «semplificato», sono stati mantenuti in capo al datore di lavoro i tradizionali obblighi in tema di sicurezza sul lavoro ex art. 22 d.lgs. 81/2017. Ebbene, il Protocollo del 24 aprile 2020 è intervenuto ampliando gli oneri in tema di «lavoro agile semplificato» a carico del datore di lavoro, che deve ora garantire altresì adeguate «condizioni di supporto» al lavoratore e alla sua attività (assistenza nell’uso delle apparecchiature, modulazione dei tempi di lavoro e delle pause): trattasi di indicazioni che – abitualmente – dovrebbero trovare disciplina nell’accordo previsto dall’art. 19 d.lgs. 81/2017 (che – come noto – non è invece previsto per lo smart working durante il periodo di emergenza Covid-19), e che dovranno dunque essere oggetto di attenta valutazione, anche in virtù del richiamo contenuto nell’art. 1, comma 15, comma d.l. 33/2020, che prevede – in caso di mancato rispetto dei contenuti dei protocolli, che non assicuri adeguati livelli di protezione- la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza».
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