Pagina a cura di Daniele Bonaddio
L’installazione di impianti di video sorveglianza, bussole anti transito, casseforti ad apertura programmata ed impianti di tele allarme, non sono misure sufficienti a garantire l’incolumità del personale in zone ad alta pericolosità. Di conseguenza, il datore di lavoro è responsabile, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., per i danni alla salute derivanti al personale a seguito di interventi plurimi di rapina. È dunque onere del datore di lavoro dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, attraverso l’adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche. A stabilirlo è la Corte di cassazione con la sentenza n. 15105 del 15 luglio 2020.

Il caso. La vicenda riguarda un lavoratore che, dopo aver subito un disturbo post-traumatico da stress di grado grave, a causa delle dieci rapine subite presso la propria sede di lavoro, propone ricorso dinanzi al Tribunale di Napoli, nei confronti della società datrice di lavoro e dell’Inail, al fine di ottenere il risarcimento del danno biologico patito.
Nel caso di specie, sia i giudici di primo che secondo grado hanno accolto parzialmente la domanda del dipendente, condannando la società al relativo risarcimento. Infatti, rileva la Corte territoriale, la predisposizione, da parte della società, di misure di sicurezza quali l’impianto di telesorveglianza, la bussola multitransito, la cassaforte con apertura a tempo programmata, la cassaforte con apertura, programmabile ogni 15 minuti, l’impianto di teleallarme a tastiera programmata, nonché i vari pulsanti antirapina, erano tutte misure dirette a non rendere fruttuosa per gli assalitori una azione criminale di rapina, ma non certo a tutelare i dipendenti.

Il fine, dunque, non era certamente quello di proteggere i lavoratori dalle rapine ma di fare in modo che queste non recassero troppi danni all’azienda, vietando di consegnare valori ai rapinatori che tenessero in ostaggio i colleghi ed obbligandoli così ad assistere inerti alle percosse dei primi ai secondi e pretendendo il rimborso da parte del dipendente di quanto rapinato laddove avesse consegnato il denaro.

Pertanto, per i giudici di merito, è rilevante l’ipotesi di responsabilità contrattuale dell’imprenditore alla stregua dell’art. 2087 cod. civ., che pone un obbligo di garanzia in capo al datore di lavoro a tutela della persona del lavoratore, imponendo al primo di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del secondo.

La società, però, impugnava la sentenza di secondo grado e ricorreva in Cassazione.

La difesa. Innanzitutto il ricorrente lamentava che i giudici di merito avrebbero riconosciuto la responsabilità della società datrice di lavoro per i danni occorsi alla dipendente, perché avrebbero erroneamente ritenuto che non fossero state predisposte adeguate misure di sicurezza per la tutela dei lavoratori, ed avrebbero, in conseguenza di ciò, reputato che la società avesse violato l’art. 2087 cod. civ.


Inoltre, riteneva la società, che i dispositivi di sicurezza predisposti sarebbero gli unici che ragionevolmente possono essere adottati in un ufficio postale e che hanno l’evidente scopo dissuasivo dell’intento criminoso e, conseguentemente, di tutelare gli operatori addetti allo sportello.

Infine, a detta del datore di lavoro, i giudici di merito avrebbero addebitato una ipotesi di responsabilità oggettiva, non considerando che la responsabilità datoriale deve essere necessariamente collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da una fonte legislativa, ovvero suggeriti dalle conoscenze tecniche del momento, omettendo, tra l’altro, ogni esame e valutazione in ordine alla idoneità degli strumenti predisposti a fornire la tutela adeguata ai dipendenti.

La sentenza. I giudici della Suprema corte respingono il ricorso della società. Secondo gli Ermellini, infatti, la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, nell’ipotesi in cui esse non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art. 2087 cod. civ.

Tale norma, in particolare, rappresenta fonte primaria del sistema antinfortunistico estensibile a situazioni ed ipotesi non ancora espressamente considerate e valutate dal legislatore al momento della sua formulazione e che impone all’imprenditore l’obbligo di adottare, nell’esercizio dell’impresa, tutte le misure che, avuto riguardo alla particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, siano necessarie a tutelare l’integrità psico-fisica dei lavoratori.

Pertanto, nel caso in cui si versi in ipotesi di attività lavorativa divenuta «pericolosa», come nella fattispecie, la responsabilità del datore di lavoro-imprenditore riguarda l’omessa predisposizione di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale, del concreto tipo di lavorazione e del connesso rischio.

In definitiva, affermano i giudici di legittimità, l’onere della prova gravava sul datore di lavoro, che avrebbe dovuto dimostrare di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, attraverso l’adozione di cautele previste in via generale e specifica dalle norme antinfortunistiche, di cui, correttamente, i giudici di merito hanno ravvisato la violazione, ritenendo la sussistenza del nesso causale tra il danno occorso alla lavoratrice, a seguito delle dieci rapine subite, e l’attività svolta dalla stessa, senza la predisposizione, da parte della datrice di lavoro, di adeguate misure dirette a tutelare i dipendenti.

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