di Angelo De Mattia
Come era stato previsto, la Vigilanza unica ha autorizzato l’aumento della partecipazione della Delfin di Leonardo Del Vecchio fino al 20% di Mediobanca. Non è vero, dunque, che vi è «Hannibal ante portas». È vero invece che si applica il «cucciano» titolo quinto: chi ha i soldi ha vinto. Sin dall’origine, conoscendo la normativa e la prassi applicativa, non poteva esservi dubbio sull’autorizzazione, come ripetutamente sostenuto su queste colonne, quasi solitariamente. Nel frattempo si sono affestallati invece per mesi sedicenti argomenti e immotivati timori, probabilmente ben orchestrati da un’attenta ma poco competente regìa che evocava l’avvento del «mal francese», ossia la possibilità di una colonizzazione di Mediobanca (dunque occorreva lottare, senza tema del ridicolo, per la sua indipendenza, ma non piuttosto per le poltrone dei manager). Si è arrivati fino a concepire una strampalata norma che avrebbe dovuto attribuire a Consob il golden power nei confronti di assalti a Mediobanca, magari provenienti da Oltralpe, una norma poi saggiamente espunta dal decreto Agosto, ma che alcuni ancora sperano, affrontando un’immaginaria pugna, di poterla reintrodurre nel corso della conversione parlamentare del decreto. Insomma, una sorta di nemesi storica: Mediobanca, che con Cuccia era la esaltazione del ruolo dei privati, ricorrerebbe alla mano pubblica per fronteggiare ipotetici nemici. L’esame compiuto a Francoforte riconduce, al contrario, questa vicenda nei suoi corretti ambiti. Sarebbe stato assurdo pretendere un diniego del via libera, che facilmente sarebbe stato rovesciato in sede giurisdizionale a favore di Delfin. Dunque la vicenda è anche una lezione per il futuro.
Ma non è finita. Adesso alcuni si affannano a sostenere che la partecipazione è solo finanziaria, che Delfin non presenterà una propria lista per l’elezione dei componenti gli organi deliberativi e di controllo, che, quando inizierà ad aumentare l’interessenza (inizialmente, forse, intorno al 14%), Delfin dovrà rilasciare diverse informazioni, innanzitutto sulle finalità dell’operazione. Si dimentica comunque che non può esistere una cogente limitazione dei diritti degli azionisti, che in ogni caso – posto che sia considerata effettivamente finanziaria la partecipazione – la società voterà nelle assemblee, giudicherà la governance, esprimerà valutazioni: non si impegnano somme rilevanti per fare lo sleeping partner. Essenziale sarà il rispetto della normativa di Vigilanza e innanzitutto la coerenza con la tutela della stabilità (che racchiude il soddisfacimento delle ragioni della competitività) dell’istituto.
Si guardi allora alle opportunità che l’iniziativa dischiude e, se per esempio si sostiene che Mediobanca non può fondare una parte rilevante dei «ritorni» sulle Generali, si afferma un concetto che non può essere rigettato con fastidio. Esso apre invece a iniziative di rafforzamento e alla partecipazione di coloro che per primi debbono scendere in campo: gli azionisti. Si ricordi la celeberrima configurazione della compagnia riportata nell’illuminante libro-intervista Confiteor curato da Massimo Mucchetti insieme con l’autorevole banchiere Cesare Geronzi: una mucca dalle cento mammelle. Ciò non significa attentare all’italianità del Leone: non si confondano i piani, non si mescolino strategie e prospettive con le aspettative personali dei manager. L’era Cuccia è lontana, come è lontana anche l’era Maranghi che intendeva il ruolo di Mediobanca nelle Generali tale da arrivare a disconoscere anche il significato e le potenzialità del 5% circa del Leone posseduto da Bankitalia. L’operazione Delfin suona la sveglia per tutti. Accoglierne il significato anche in termini di competizione può essere una sfida allettante, soprattutto se si smette di pensare alle grucce dello Stato e alla tutela di consolidate posizioni di potere che però a poco a poco presentano falle non più rimarginabili. (riproduzione riservata)
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