Un recente articolo uscito su Repubblica sostiene che il ”valore” del welfare aziendale sia di oltre 3 miliardi di euro ma comporti perdite fiscali medie di 270 milioni all’anno per il fisco. È proprio così?
Federico Razetti e Valentino Santoni approfondiscono l’argomento su Percorsi di Secondo Welfare.
La questione è stata in prima battuta sollevata dal presidente del Cnel, Tiziano Treu, che ha sottolineato come “la defiscalizzazione e la decontribuzione previdenziale introdotta nell’erogazione del premio di risultato contrattato hanno un costo sempre più rilevante per la collettività”.
Qualche giorno fa la sollecitazione di Treu a interrogarsi attentamente sui costi del welfare aziendale per lo Stato è stata ripresa da Marco Ruffolo con un articolo sul quotidiano La Repubblica. In tale contributo si fa riferimento a un “valore” del welfare aziendale derivante dalla trasformazione del premio di risultato stimato in 3 miliardi di euro, con una conseguente perdita per lo Stato di oltre 800 milioni di euro, a causa del mancato versamento di contributi e fiscalità generale.
Ma come si è arrivati a tali cifre? Possono essere considerate attendibili?
Nel suo articolo, in cui riprende i dati pubblicati dal Ministero del Lavoro e quelli della Ragioneria Generale dello Stato, Ruffolo sottolinea come – a fronte di un valore dei premi di risultato convertiti in welfare pari a 3 miliardi di euro nel triennio considerato e ipotizzando un’aliquota media del 27% – le mancate entrate fiscali per lo Stato sarebbero state pari a circa 810 milioni di euro in tre anni. Se interpretiamo correttamente l’analisi proposta da Repubblica, si dovrebbe ipotizzare una perdita fiscale media di 270 milioni all’anno.
Seguiamo il ragionamento di Ruffolo e proviamo a produrre una stima alternativa. Per farlo, ci serviamo dei dati prodotti da Inapp e presentati nell’ultimo Rapporto CNEL su Mercato del Lavoro e Contrattazione Collettiva e di quelli prodotti da OCSEL a partire dalla banca dati del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF). Secondo i dati CNEL-Inapp, che si riferiscono al biennio 18 maggio 2016 -11 giugno 2018, in media il valore del premio riconosciuto ai singoli lavoratori è stato di 1.525 euro. Nel biennio, inoltre, solo il 18% dei contratti collettivi cui erano riferite le istanze presentate per le agevolazioni disciplinava la possibilità di fornire il premio sotto forma di servizi di welfare aziendale. Un elemento molto importante è che, secondo i dati del MEF, elaborati da OCSEL, nel 2017 sarebbero stati appena 130.743 i lavoratori a decidere di trasformare effettivamente il premio in welfare.
Considerando una tassazione del 27%, come proposto da Ruffolo, e un valore del premio quale quello calcolato dal CNEL sul biennio 2016-2018 (1.525 euro), la perdita fiscale per lo Stato sarebbe stata pari – nel 2017 – a circa 54 milioni di euro. Inoltre, se il termine di paragone non fosse l’aliquota del 27%, ma quella agevolata del 10% prevista comunque per il premio non convertito in welfare, le mancate entrate dovute alla conversione si ridurrebbero ulteriormente, scendendo a 34 miloni nel 2017. Il fatto che pochi lavoratori scelgano di convertire in tutto o in parte il proprio premio in welfare è peraltro confermato da altre ricerche, tra cui quella realizzata dal provider Easy Welfare (disponibile qui). Anche tenendo conto dell’incremento dei contratti che disciplinano la possibilità della conversione in welfare (oggi oltre la metà del totale, secondo gli ultimi dati diffusi dal Ministero del Lavoro) e di un possibile aumento dei lavoratori che decidono effettivamente di utilizzare questa opzione, una stima di 810 milioni in tre anni riferita esclusivamente al premio di risultato convertito in welfare appare poco plausibile.
Inoltre, se da un lato le stime proposte nel contributo di Repubblica appaiono probabilmente sovradimensionate, dall’altro sembrano però ignorare completamente altri costi sostenuti indirettamente dallo Stato, ovvero le tax expenditure legate ai benefit di welfare aziendale non erogati sotto forma di premio di risultato (i quali, ricordiamo, non sono tassati come il “normale” reddito da lavoro dipendente).
Infine, appare evidente che una stima corretta e completa dovrebbe considerare non solo le mancate entrate, ma anche i maggiori introiti (fiscali e contributivi) generati dal welfare aziendale, grazie all’attivazione di nuove attività imprendtoriali, ai possibili effetti in termini di emersione del lavoro nero, sopratutto nel settore dei servizi alla persona, oltreché all’ateso aumento della produttività indotto nelle imprese che introducono il welfare per i propri dipendenti.
Sembra quindi azzardato, al momento, parlare di stime affidabili in materia di costi generati dagli incentivi al welfare aziendale. L’esercizio qui proposto ha il solo obiettivo di mettere in luce quanto sia complesso produrre stime ragionevoli in un campo delle politiche sociali – quale quello del welfare aziendale – relativamente nuovo e come sarebbe del tutto improprio assumere decisioni di policy sulla base di evidenze approssimative o di titoli ad effetto. Proprio per tale ragione, come sottolineato da Franca Maino e Maurizio Ferrera nelle Conclusioni del Terzo Rapporto sul secondo welfare in Italia (2017) e, più recentemente, da Tiziano Treu e Emmanuele Massagli, è necessario approfondire la questione promuovendo analisi e ricerche in questo campo, nel tentativo di verificare empiricamente la fondatezza di aspettative, dubbi e timori che sono andati legittimamente accumulandosi nel dibattito pubblico degli ultimi anni.
Un’altra questione sollevata dall’articolo di Repubblica riguarda l’effettiva valenza sociale dei benefit di welfare aziendale. Come è sottolineato da Ruffolo, l’impatto sociale di tali strumenti è innegabile quando si parla di contributi per l’asilo nido e, in generale, l’istruzione dei figli oppure di interventi per il sostegno a genitori anziani o non autosufficienti. È giusto però dare lo stesso valore – e quindi gli stessi sgravi fiscali e contributivi – anche alle prestazioni che riguardano il tempo libero (viaggi, abbonamenti di varia natura, ecc.) e ai cosiddetti buoni spesa?
La questione appare molto delicata. Da un lato vi è infatti il rischio che il welfare aziendale si trasformi in un mero incentivo al consumo di prestazioni che poco hanno a che fare con i bisogni sociali degli individui; dall’altro però è pur vero che l’inserimento anche di tali misure potrebbe essere importante per riconoscere a lavoratori di tutte le età opzioni appetibili fra cui scegliere. La presenza di prestazioni che riguardano l’ambito ricreativo e il tempo libero, pur non dovendo venire meno, dovrebbe ad ogni modo essere trattata diversamente – dalle imprese, dalle parti sociali, dai provider, ecc. – per evitare che diventi preponderante a scapito di una offerta ampia e articolata di servizi alla persona di qualità e di una effettiva scelta di servizi in natura e sociali, evitando così derive “consumistiche” e poco attente alla dimensione sociale.
A questo riguardo ci teniamo a sottolineare che il ruolo delle parti sociali, e in primis del sindacato, può essere cruciale per portare alla luce i reali bisogni sociali dei lavoratori e delle loro famiglie. Così facendo, in fase di negoziazione le rappresentanze dei lavoratori potrebbero porre al centro il benessere dei dipendenti inteso in senso più ampio, cioè riguardante la sfera lavorativa, quella personale e quella familiare, e quindi “guidare” l’impresa nella definizione delle prestazioni e dei benefit di welfare.
Come abbiamo cercato spesso di sottolineare, oltre che per il suo valore sociale, il welfare aziendale è stato infatti cruciale anche in materia di contrattazione e dialogo tra le parti, in particolare negli anni più duri della crisi.