L’altro nuovo capitolo che potrebbe aggiungersi al romanzo delle riforme pensionistiche riguarda il taglio delle cosiddette pensioni d’oro annunciato dall’esecutivo giallo-verde. Anche sul punto, al momento, vi sono solo delle ipotesi di lavoro. Il «contratto di governo» prospettava un intervento finalizzato al taglio degli assegni superiori ai 5 mila euro netti mensili «non giustificati dai contributi versati». Nelle ultime settimane, l’asticella si sarebbe abbassata a un netto al mese di 4 mila euro, ma la Lega frena e punta a una riedizione del contributo di solidarietà.

In ogni caso, i dettagli tecnici dell’operazione non sono ancora noti, ed è su questo piano, che l’ipotizzata riforma dovrà essere attentamente calibrata per (se non evitare, almeno) contenere il rischio di ricorsi in massa.
Al momento, la proposta sul tavolo, già tradotta in un disegno di legge, presenta non poche difficoltà tecniche. In un recente post a forma del vice-premier Luigi Di Maio in replica a presunte fake news del quotidiano la Repubblica, viene riportato un esempio: «Mettete il caso del signor Bianchi e del signor Rossi, entrambi prendono 5 mila euro di pensione. Il signor Rossi ha versato effettivamente contributi per 5 mila, il signor Bianchi ne ha versato solo per 4 mila. Con la nostra legge il signor Rossi continuerà a prenderne 5 mila, mentre il signor Bianchi inizierà a percepirne 4 mila, ossia quello che ha versato». In questo senso, il correttivo in cantiere pare in linea con lo spirito delle ultime riforme pensionistiche (richiamata anche dal focus dell’Upb).
Ma cosa significa avere versato contributi per una certa pensione mensile? Pare di capire che l’intenzione sia quella di abbandonare, per le pensioni più alte, il sistema «retributivo» a favore del «contributivo» puro.
Ma quest’ultimo si basa, oltre che sul cosiddetto montante (i contributi versati), anche sul coefficiente di trasformazione, che è legato all’età e quindi all’aspettativa di vita del pensionando. Come verrà effettuato il ricalcolo? Considerando l’età attuale o quella al momento della pensione? E sulla base di quale aspettativa di vita? In generale, pare improprio dire «il signor Bianchi» ha versato per 4 mila euro ma ne prende 5 mila, perché dipende da quanti anni ha il signor Bianchi, da quando prende la pensione e per quanto (si stima) la prenderà ancora.

L’aggancio a quanto effettivamente versato pare finalizzato a evitare di incappare nei medesimi vizi di legittimità riscontrati dalla Corte costituzionale nel cosiddetto contributo di solidarietà introdotto (come la riforma «Fornero») dal governo Monti. In quell’occasione (sentenza n. 116/2013), i giudici delle leggi dichiararono l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 22-bis, del dl 98/2011. La disposizione censurata prevedeva un prelievo fiscale aggiuntivo a carico dei trattamenti pensionistici corrisposti da enti gestori di forme di previdenza obbligatorie superiori a 90 mila euro lordi annui, assoggettandoli a un «contributo di perequazione» pari al 5% della parte eccedente il predetto importo fino a 150 mila euro, nonché pari al 10% per la parte eccedente 150 mila euro e al 15% per la parte eccedente 200 mila euro. Una simile disciplina si poneva in evidente contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., giacché l’introduzione di quella che di fatto era un’imposta speciale, sia pure transitoria ed eccezionale, in relazione soltanto ai pensionati viola il principio della parità di trattamento e quello della parità di prelievo a parità di presupposto d’imposta economicamente rilevante. Come evidenziato dalla Corte, i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini dell’osservanza dell’art. 53 Cost., il quale non consente trattamenti peggiorativi di determinate categorie di redditi da lavoro. Al contrario, la giurisprudenza costituzionale ha più volte sottolineato la particolare tutela che il nostro ordinamento riconosce ai trattamenti pensionistici, che costituiscono, nei diversi sistemi che la legislazione contempla, il perfezionamento della fattispecie previdenziale conseguente ai requisiti anagrafici e contributivi richiesti.
La Corte, peraltro, è tornata sul tema con la più recente sentenza n. 173/2016, relativo al nuovo «contributo di solidarietà» introdotto dal Governo Letta con l’art. 1, commi 483, 486, 487 e 590, della legge 147/21013 per il triennio 2014-2016 a carico di tutti i trattamenti pensionistici obbligatori eccedenti determinati limiti stabiliti in relazione al trattamento minimo Inps. In tal caso, la pronuncia fu di infondatezza giacche il suddetto prelievo non era configurabile come tributo non essendo acquisito allo Stato, né destinato alla fiscalità generale, ed essendo, invece, prelevato, in via diretta, dall’Inps e dagli altri enti previdenziali coinvolti, i quali, anziché versarlo all’erario in qualità di sostituti di imposta, lo trattenevano all’interno delle proprie gestioni, con specifiche finalità solidaristiche endo-previdenziali. Ed è su una misura di questo tipo che il Carroccio pare voler convergere, dopo che i vertici del partito (e anche una parte della base) hanno espresso forti perplessità sull’idea di partenza, che finirebbe per penalizzare soprattutto i pensionati del nord (e toccherebbe categorie «sensibili» come ex magistrati, militari, imprenditori).
Insomma, sul punto pare necessaria ancora qualche ulteriore riflessione, posto che, in ogni caso, un intervento retroattivo pare a forte rischio contenzioso. A seconda di come sarà configurato, si potrà anche valutarne l’impatto finanziario, questa volta positivo, ma che comunque sarà di un ordine di grandezza del tutto diverso e inferiore rispetto a quello (negativo) conseguente all’eventuale abolizione della «Fornero» (si parla al massimo di 500 milioni).

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