Pagine a cura di Giovanni Valcarenghi
Nel caso in cui la presenza dell’amministratore risulti una condizione indispensabile per la prosecuzione dell’attività sociale, è legittimo sottoscrivere una polizza che preveda l’erogazione di una somma di denaro in caso di decesso del manager assicurato. Questo è un principio che deve essere approfondito, in quanto capace di esplicare una doppia conseguenza sul versante della tutela civilistica della continuità aziendale, nonché su quello dei riflessi fiscali che derivano da tale comportamento. Nella prassi, infatti, è frequente che le compagnie assicuratrici propongano alla società la stipula di polizze c.d. key man, che si sostanziano in contratti che assicurano il rischio morte dell’amministratore (o degli amministratori), ritenuto figura chiave per l’azienda (vale a dire soggetto senza il quale l’attività faticherebbe a proseguire). Lo scopo, almeno in linea teorica, sarebbe quello di assicurare alla società un introito in denaro che consenta di far fronte alla mancanza di un «carburante» indispensabile per la prosecuzione dell’attività, in caso di accadimento di un evento luttuoso; con il denaro ricevuto, dunque, la società potrebbe astrattamente disporre delle somme necessarie per corrispondere un emolumento a un altro soggetto, con capacità simili al defunto amministratore, in modo da evitare uno stallo dell’attività. Pertanto, la impostazione più limpida della questione richiede che il soggetto beneficiario della erogazione sia la società, a prescindere dal fatto che il soggetto assicurato sia, invece, l’amministratore. Una prima riflessione, dunque, attiene alla legittimità civilistica della scelta, in merito alla quale non si dovrebbero nutrire dubbi; l’operazione si inquadra facilmente tra quelle che tutelano l’esistenza in vita dell’ente nonché la profittevole continuazione dell’attività. Il pagamento del premio della polizza, dunque, può tranquillamente essere inquadrato non solo tra le operazioni legittimamente poste in essere, bensì tra quelle raccomandabili. Chiarito l’inquadramento, la gestione contabile deve essere analizzata verificando il contenuto degli accordi contrattuali. Infatti, ove il pagamento del premio determini unicamente il diritto alla percezione di una somma di denaro in caso di morte del soggetto assicurato, si dovrà gestire un costo che transita a conto economico nella voce B7 (costi per servizi) e che dovrà essere gestito con l’approccio della competenza, in relazione al periodo di copertura, ove il medesimo non coincida con l’esercizio sociale. Diversamente, se nel contratto fosse inserita la previsione di una erogazione di un capitale nel caso in cui l’evento morte non si verificasse in costanza di efficacia della copertura, l’erogazione conterrebbe una componente di «accumulo» che non potrebbe essere trattata come un costo, ma dovrebbe essere accantonata nell’attivo come fosse una sorta di investimento di natura finanziaria, sia pure soggetto ad alea (ma, in tal caso, si otterrebbe l’erogazione della somma a copertura del caso morte). Le informazioni necessarie alla corretta imputazione dovranno essere ricavate dal testo della polizza che dovrà riportare le eventuali diverse componenti del premio corrisposto, da suddividere mediante una imputazione a conto economico, ovvero a stato patrimoniale. Normalmente, però, tali tipologie di polizze prevedono unicamente l’erogazione delle somme in caso morte.
In alcuni casi, la finalità della polizza è completamente differente, non evidenziandosi solo la volontà di coprire il rischio morte, bensì anche quella di tutelare l’amministratore verso possibili richieste di risarcimento danni in cui potrebbe incappare per effetto del ruolo rivestito in azienda. Si tratta di una fattispecie completamente differente, nella quale si ricerca una copertura per tutelare la società da eventuali richieste di danno da parte di terzi. Anche in tal caso, posto che l’evento generatore del danno dovrà sempre e comunque essere un comportamento astrattamente legittimo dell’amministratore, si tratta di un comportamento perfettamente conforme alla logica di corretta gestione aziendale; qui si è evocato il caso dell’amministratore, ma la situazione appare perfettamente sovrapponibile a quella della polizza stipulata dalla società per coprirsi dai danni eventualmente cagionati dai propri dipendenti nello svolgimento delle loro mansioni. In ogni caso, poi, si potrà pensare ad azioni di rivalsa nei confronti del soggetto che ha cagionato il danno, qualora si ritenga che il suo comportamento non sia state esente da responsabilità.
Quando il beneficiario è l’erede
Il ragionamento in merito alla piena coerenza della stipula della polizza con il rischio patito dall’impresa viene a vacillare nelle ipotesi in cui il beneficiario della erogazione, alla morte dell’assicurato, fosse un erede dell’amministratore, anziché la società. In tal caso, appare ragionevole contestare la ricostruzione, per il semplice fatto che la polizza va a soddisfare un interesse di natura extra aziendale, vale a dire il ristoro che l’erede si attende di ricevere per il caso morte del suo familiare. Mancherebbe, dunque, qualsiasi collegamento con l’attività e, per conseguenza, l’inerenza. Ad analoghe conclusioni si dovrebbe giungere nel caso in cui, in corso di polizza, si mutasse l’originario beneficiario (società) a favore del nuovo beneficiario (eredi dell’amministratore); se, in origine, l’operazione risultava correttamente inquadrata, al momento della sottoscrizione di tale accordo si sarebbe compiuta una sorta di destinazione del beneficio a finalità estranee all’attività di impresa, con conseguenze assolutamente rilevanti sul versante fiscale. Infine, non diverso appare il caso in cui la copertura della polizza (con beneficiaria la società) continuasse anche nell’ipotesi in cui il soggetto assicurato non rivestisse più la carica di amministratore dell’ente; risulta sin troppo chiaro, anche in tale ipotesi, l’assoluto «vuoto» che si verrebbe a creare in merito alla legittimità dell’erogazione, magari potendosi operare una distinzione tra le polizze a premio unico e quelle a premio frazionato annuale. Nel primo caso, si potrebbe sostenere che, al momento della sottoscrizione, non era nota la cessazione dell’incarico, pur se in ogni caso si dovrà verificare la tenuta della deduzione sempre e comunque in relazione alla specifica situazione della società. Nel caso di premio frazionato, invece, appare evidente l’assoluta inutilità della erogazione effettuata in un momento successivo alle dimissioni, quando viene meno, in sé, la strategicità della presenza dell’amministratore. Peraltro, mancando il legame della carica, si potrebbe anche dubitare sulla legittimità di un tale contratto, che deriva le proprie conseguenze dalla vita altrui. Pertanto, nelle ipotesi di beneficiario diverso dalla società, ci sarebbe da argomentare in merito alla circostanza per cui il pagamento del premio, andando a recare un beneficio a un soggetto estraneo, potrebbe rappresentare un pagamento di un compenso in natura all’amministratore, di tal che l’operazione andrebbe diversamente inquadrata. Innanzitutto, dovrebbe sussistere a monte una delibera che legittimi tale compenso (che sia in natura o in denaro, nulla cambia) e, in secondo luogo, l’erogazione risulterà tassata in capo al beneficiario (che, nello specifico, risulta l’amministratore assicurato).
Ne deriva che si dovranno attivare tutte le conseguenze di natura contabile, amministrativa e fiscale: la contabilizzazione continuerà a essere effettuata per natura del costo (voce B7, costi per servizi), dovrà essere emesso il «cedolino» per il compenso, con l’applicazione di tutte le ritenute fiscali e previdenziali del caso.
Deducibilità, coro non all’unisono
Se la stipula di una polizza a copertura del rischio vita dell’amministratore (uomo chiave) appare atto legittimo sul versante civilistico, numerose perplessità emergono in ambito fiscale, dove l’amministrazione finanziaria e la giurisprudenza hanno adottato un atteggiamento altamente recalcitrante alla deduzione del costo, dubitando della inerenza del medesimo. Inerenza che, secondo gli approdi più recenti, va verificata esclusivamente verificando la correlazione con attività potenzialmente idonee a produrre ricavi e non, come si sosteneva nel passato, con elementi reddituali. Argomentando in tale direzione, allora, il timore della possibile contrazione o azzeramento del fatturato nel caso di morte dell’amministratore, dovrebbe essere sufficiente a giustificare l’inerenza del costo; ovviamente, quando tale ragionamento sia svolto in relazione a una società per la quale l’amministratore svolga, realmente, un ruolo chiave. Tale ultima precisazione sembrerebbe poter essere considerata come un dogma in tette le medio piccole attività nelle quali l’amministratore è direttamente interessato all’attività, tiene i rapporti con i clienti strategici, imposta sorveglia e guida il processo produttivo ecc. Vi sono poi anche dei casi, solitamente coincidenti con aziende più solidamente strutturate, con una spersonalizzazione dell’attività rispetto all’organo amministrativo e a favore di un tessuto dirigenziale materialmente operativo, dove il ragionamento conduce a risultati opposti, visto che l’eventuale sostituzione di uni o più amministratori non incide in modo evidente sulla prosecuzione dell’attività. Nonostante ciò, la Cassazione (sentenza 28004 del 30/12/2009) e l’Agenzia delle entrate (sia pure in via informale, tramite la Dre Piemonte, rispondendo a un quesito nel corso dell’anno 2005) sono ferme sul concetto delle non deducibilità per carenza di inerenza, sia pure in relazione alle polizze per infortuni stipulate per personale con qualifica di dirigente, impiegato e quadro; peraltro, la Cassazione citata appare altamente contraddittoria, in quanto qualifica i costi come inerenti alla gestione di impresa, ma non ne ammette la deduzione in quanto non diretti alla produzione di reddito.
Diversamente, la dottrina pare ormai cristallizzata sulla correttezza della deduzione; in particolar modo, possiamo citare la norma di comportamento Aidc n. 154/2004 dove si afferma che, quando la società risulta beneficiaria del contratto assicurativo, il premio non è redditualmente rilevante per l’amministratore, pur mantenendo il carattere di costo d’esercizio per la società stessa. Il costo della polizza assicurativa è inerente all’attività d’impresa esercitata e, se rispetta le altre condizioni sancite dall’art. 109 del dpr n. 917/1986 quanto a certezza e determinabilità, è deducibile dal reddito di impresa. Infatti il decesso o l’infortunio dell’amministratore costituiscono eventi forieri di conseguenze sfavorevoli per la società, che dal venir meno delle capacità e delle conoscenze del proprio amministratore può subire ripercussioni negative sull’attività esercitata. Con la stipula del contratto assicurativo volto a coprire il rischio morte o infortunio dell’amministratore, la società ha come fine la tutela degli interessi e del patrimonio aziendale, minacciati dall’occorrere di tali sinistri e pertanto tale cautela, ancorché onerosa, costituisce un atto pienamente giustificato sotto il profilo economico e civilistico. All’atto della eventuale percezione dell’indennizzo assicurativo da parte della società, inoltre, l’ammontare percepito determina (sul versante fiscale) una sopravvenienza attiva da assoggettare a tassazione. E, anche per tale motivo, si rinviene un opportuno equilibrio tra la deduzione del premio e la tassazione della erogazione nel caso di verificarsi dell’evento da cui deriva il rischio che la polizza intende coprire. Analoghe conclusioni sono state sostenute, più di recente, dalla Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro con il parere 7/2010 e, in giurisprudenza, dalla Ctp di Agrigento con sentenza 1840 del 27/4/2015 e dalla Ctr di Venezia con sentenza 216 del 10/2/2016.
Il caso particolare dell’incarico rischioso
In talune ipotesi si potrebbe intravedere un interesse della società a stipulare una polizza, rischio vita per l’amministratore, con beneficiari gli eredi di quest’ultimo; si tratta, tuttavia, di casi limite, che vanno tenuti isolati e non possono essere generalizzati. Lo spunto proviene dalla Cassazione, sezione lavoro, che, con sentenza 4129 del 22 marzo 2002, si è occupata dell’onere, gravante sulla società, di tutelare le possibili ripercussioni derivanti dall’evento morte dell’amministratore nello svolgimento della propria attività. Si pensi al caso di una società che abbia interessi economici in paesi ad alto rischio, ove si debba recare l’amministratore per la indispensabile conclusione di contratti, esponendosi anche a rischi di rapimenti, aggressioni, attentati, ecc. In tale caso, secondo la Suprema corte, il datore di lavoro sarebbe responsabile della mancata adozione di ogni misura atta a prevenire la salute e l’integrità fisica dei propri lavoratori, anche se i rischi possano derivare da eventi non strettamente connessi con lo svolgimento dell’attività, ma comunque conseguenza del luogo ove l’attività viene svolta. In sostanza, se è normale che l’amministratore si sposti in altri paesi per la conclusione di contratti, potrebbe essere meno «normale» che la destinazione sia un paese ad alto rischio, magari ricompreso nella lista di quelli sconsigliati dal Ministero degli esteri.
Quindi, in tal caso, cambierebbe la motivazione che sta alla base della stipula della polizza; infatti, non si tratterebbe di preservare la continuazione dell’attività sociale in conseguenza del venir meno dell’amministratore, bensì di tutelarsi verso il rischio di risarcimento danni che potrebbe essere avanzato dai familiari del defunto, che individuino una responsabilità in capo all’ente nell’avere assegnato l’incarico e nel non avere predisposto tutte le misure preventive necessarie, come dovrebbe fare il datore di lavoro, secondo la tesi sostenuta dalla Cassazione.
Innegabile riscontrare, inoltre, che la presenza della polizza potrebbe costituire un elemento di convincimento evidente per fare in modo che vi siano soggetti disposti ad accettare la carica di amministratore dell’ente, tenendo conto, oltre che del compenso, anche della presenza di tale copertura. Tutto il ragionamento, a parere di chi scrive, funziona in società di grandi dimensioni, dove la figura dell’amministratore è terza rispetto a quella dei soci e, per conseguenza, viene a mancare qualsiasi collegamento diretto tra proprietà e gestione. Non diverso, potrebbe essere il caso di amministratori che prestano la propria opera in società con stabilimenti nei quali sia presente un elevato rischio per la salute, a causa della particolare tipologia di lavorazioni svolte, ovvero della particolare tipologia di materiali trattati. Oltre ad approntare tutte le necessarie prevenzioni imposte dalla normativa, la società potrebbe ritenere utile godere di una ulteriore copertura assicurativa per tutelarsi contro le eventuali richieste di danni avanzate dai familiari dei propri dipendenti e dei propri collaboratori, tra cui anche l’amministratore.
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