Secondo fonti di stampa Unicredit potrebbe valutare la possibilità di aggregare Fineco Bank, di cui detiene il 56%, a Banca Generali, la private
bank del Leone di Trieste, al fine di dar vita a un unico gruppo focalizzato sulla consulenza finanziaria e sul risparmio gestito. Un polo unico
che potrebbe nascere con una fusione o uno scambio di azioni. Nonostante al momento non ci siano conferme, gli analisti di Banca Akros
(rating neutral su titolo FinecoBank, target price a 6,4 euro) ritengono plausibile l’operazione, che potrebbe aver luogo con la cessione delle quote di
Pioneer, che dovrebbe portare nelle casse di Gae Aulenti circa 3 miliardi di euro. «Ciò creerebbe il secondo maggiore gruppo di gestione finanziaria
in Italia, senza tralasciare possibili sinergie in termini di prodotti e costi», commentano gli esperti, ricordando che a fine giugno FinecoBank
aveva in gestione asset per circa 55,5 miliardi di euro, Banca Generali per 43,6 miliardi.
Ben diversa l’opinione di Equita, che ritiene la fusione «molto improbabile». La sim, che sui due titoli ha un rating hold con target price a 19,8 euro
per Banca Generali e 5,9 euro per FinecoBank, afferma di non comprendere appieno i motivi per cui Unicredit dovrebbe optare per una soluzio-
ne «complicata e piena di rischi piuttosto che, al limite, la vendita diretta» della controllata. Tutto ciò, considerando anche che, in caso di fusione, Generali Assicurazioni avrebbe il 20% del nuovo gruppo, e Unicredit il 29%. Ciò non avrebbe effetti in termini di Cet1. E al di là dell’improbabilità del deal, non siamo nemmeno
convinti che crei grande valore», conclude Equita. Fredda anche Mediobanca, che ritiene molto complessa l’integrazione tra due società così diverse. Gli analisti, che hanno reiterato il rating outperform su FinecoBank con target price a 7,3 euro e Neutral su Banca Generali con target price a 20 euro, osservano che le due società attive nella
raccolta del risparmio, abbiano in realtà modelli di business diversi. La prima si concentra sui segmenti mass-market e affluent dove fa valere un miglior rapporto qualità/prezzo, la seconda si focalizza su private e affluent offrendo servizi completi di gestione patrimoniale. Da ciò emerge una sovrapposizione delle due società nel settore affluent, cosa che permetterebbe il taglio di un segmento ridondante, il che è «più di una siner-gia», sostengono gli esperti. Ma le differenze riemergono nelle strategia di prezzo e di prodotto, senza contare che «l’unione di due reti di promo-tori significa mettere da parte fondi per i consulenti di sostegno, costo che potrebbe annullare l’effetto delle sinergie». Mediobanca è scettica anche sullo scopo del deal: «Non è chiaro come uno scambio tra il 55% di una società che vale 3,3 miliardi con il 34% di un nuovo istituto che vale 5,4 miliardi possa giovare alla capitalizzazione di Unicredit. Chi ha ragione allora, i possibilisti o gli scettici? Forse dipende dall’ottica con cui si guarda all’operazione. Se è infatti vero che, guardando ai numeri, è abbastanza chiaro che una simile operazione non cambierebbe molto le cose per Unicredit, nel lungo periodo, che sia o meno Banca Generali la possibile consorte, per tutto il settore del risparmio gestito è sempre più pres-sante l’imperativo di ridurre i costi. Perché con i rendimenti sottozero su circa la metà dei titoli investment grade, caricare ai clienti commissioni fra l’1 e il 2% diventa sempre più improponibile.
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