di Andrea Pira
C’è un generale senso di sorpresa attorno alla decisione presa ieri dalla Banca centrale cinese di svalutare del 2% lo yuan (o renminbi). Un intervento dall’alto per ridare fiato alla crescita economica in fase di stanca era in parte atteso, ma erano in pochi ad aspettarsi che si concretizzasse nel deprezzamento più consistente dal 2005, quando la divisa fu sganciata dal dollaro.
La People’s Bank of China ha rivisto al ribasso dell’1,9% la «parità centrale» sulla valuta statunitense, portandola a 6,2298 yuan contro dollaro, rispetto ai 6,1162 di lunedì. Il cosiddetto midpoint è il valore fissato quotidianamente per stabilire la banda d’oscillazione del 2% concessa da Pechino alla propria valuta. La PboC, che ha uno stretto controllo sul tasso di cambio, ha allargato negli ultimi anni tale spazio di manovra. L’ultima variazione risale alla primavera dell’anno scorso, quanto fu portata dall’1 al 2%. La svalutazione di ieri apre ora all’ipotesi di un ulteriore allargamento della banda. Lo stesso istituto centrale cinese ha definito la manovra «un deprezzamento straordinario», il cui scopo è portare il tasso di cambio a un livello più orientato al mercato. La Cina «è entrata di diritto nella guerra valutaria, dalla quale gli unici a stare lontani sono Stati Uniti e Gran Bretagna», ha spiegato Matteo Paganini, capo analista di DailyFX, citato dall’agenzia MF-DownJones. A suo avviso le ragioni del deprezzamento «sono riconducibili, in via ufficiale, alla riconduzione a valori di mercato più consoni della divisa cinese, vista anche la svalutazione che ha colpito le valute dei Paesi emergenti». Gli analisti hanno letto l’operazione come un tentativo di recuperare competitività. Non a caso la reazione delle borse mondiali è stato di generale ribasso, con l’indice Dax di Francoforte che ha subito le perdite più consistenti in Europa per effetto delle possibili ripercussioni sulle esportazioni tedesche. Se si dà uno sguardo al calendario, la mossa delle PboC segue di pochi giorni i dati macroeconomici diffusi nel fine settimana che registravano un calo dell’8,3% delle esportazioni nel mese di luglio. La strategia di rilancio dell’export andrebbe tuttavia nella direzione opposta rispetto al progetto della dirigenza di legare maggiormente la crescita ai consumi interni. Inoltre, chi segnala i rischi dell’operazione indica le possibili ripercussioni per le società cinesi indebitate all’estero per investire in Cina e i rischi di una possibile fuga di capitali. Secondo Hsbc, l’annuncio della PboC «non deve tuttavia essere letto come un segnale di una strategia guidata dall’alto per pilotare la crescita delle esportazioni». In parte infatti il calo registrato è frutto di una domanda debole, di cui risentono anche Paesi vicini e altamente industrializzati come la Corea del Sud e Taiwan. I benefici di una svalutazione competitiva sarebbero quindi tutti da verificare, tanto più che se motivata solo dalla necessità di sostenere la competitività, tale strategia potrebbe inoltre andare contro l’obiettivo di lungo periodo di promuovere l’uso internazionale dello yuan per il commercio e gli investimenti. L’accelerazione che sembra essere stata impressa alla riforma del meccanismo di cambio, aggiunge Hsbc, è inoltre dovuta alla volontà di Pechino di arrivare all’inclusione dello yuan tra i diritti speciali di prelievo del Fondo monetario internazionale. La decisione è attesa per novembre, ma già la scorsa settimana i tecnici dell’organizzazione multilaterale hanno esortato alla cautela, chiedendo alla Cina di liberalizzare ulteriormente i movimenti di capitale, spostando quindi la possibile data intorno al settembre del 2016. Una svalutazione dello yuan sembra andare contro questi obiettivi.
E ci sono ulteriori elementi che fanno pensare che la mossa di Pechino non sia motivata solo dal desiderio di rilanciare l’export. Secondo quanto riferito dal Wall Street Journal , lo yuan è rimasto stabile nei confronti del dollaro da marzo, ma si è apprezzato sulle altre valute mondiali, erodendo la competitività dei prodotti cinesi. Ma le importazioni sono state ancora più deboli dell’export, anche se in gran parte per il calo dei prezzi delle materie prime. Quindi il surplus commerciale della Cina nei primi sette mesi dell’anno è raddoppiato, raggiungendo i 306 miliardi di dollari. In altri termini, non è la bilancia commerciale il motivo della deciisone della PBoC. Piuttosto, un tasso di cambio più flessibile sembra voler risolvere un classico dilemma di politica monetaria. Per contrastare la frenata dell’economia, la Cina ha finora tagliato quattro volte i tassi di interesse da novembre. Ciò ha abbassato il rendimento degli asset in yuan rispetto alle altre valute, favorendo la fuoriuscita di capitali dal Paese. Nella prima metà dell’anno, i deflussi netti di capitali avevano toccato 162 miliardi di dollari, secondo i dati ufficiali, anche se per alcuni economisti la cifra reale è più alta. Con la Federal Reserve americana che prima di fine anno tornerà ad alzare i tassi, la situazione poteva solo peggiorare, il che avrebbe implicato che la banca centrale cinese avrebbe dovuto intaccare le proprie riserve valutarie per impedire una svalutazione troppo rapida e incontrollata, che avrebbe anche messo a rischio migliaia di aziende cinesi indebitate in valuta estera. Una necessità che diventa prioritaria rispetto all’ingresso nel club dei Dsp. (riproduzione riservata)