di Carlo Giuro
I fattori determinanti che incidono sulla prestazione finale delle forme di previdenza complementare sono rappresentati dalla entità e dalla stabilità della contribuzione, dalla redditività degli investimenti strutturandosi il meccanismo di funzionamento sulla capitalizzazione finanziaria dei contributi versati, dalla tipologia di rendita e dai coefficienti di conversione e, last but not least, dal fattore costo. Su orizzonti temporali lunghi, sottolinea la Covip, differenze anche piccole nei costi producono infatti effetti di rilievo sulla prestazione finale. Ad esempio, su un orizzonte temporale di 35 anni ed a parità di altre condizioni, in particolare, i rendimenti lordi, la maggiore onerosità media rispetto ai fondi pensione negoziali si traduce in una prestazione finale più bassa del 17% nel caso dei fondi pensione aperti e del 23% per i pip. Un profilo propedeutico alla riduzione dei costi e a una maggiore efficienza gestionale è costituito da un adeguato profilo dimensionale così come più volte sottolineato dalla Covip. Maggiori dimensioni consentirebbero infatti a beneficio degli aderenti, oltre a economie di scala, un aumento del potere contrattuale nei confronti dei gestori delle risorse finanziarie e degli enti erogatori di rendite.
Esiste quindi una relazione tra dimensioni, onerosità ed efficienza degli strumenti previdenziali. Una crescita del numero di iscritti consente infatti una maggiore forza contrattuale per il fondo pensione nei confronti dei fornitori e allo stesso tempo la possibilità di spalmare su un maggior numero di iscritti una parte importante di costi fissi. Il nostro sistema previdenziale è però caratterizzato da una eccessiva numerosità di forme pensionistiche, spesso di ridotte dimensioni, ragion per la quale l’Autorità di Vigilanza ne auspica un processo graduale di aggregazione. Come si legge nella Relazione Covip a fine 2013 erano 282 le forme pensionistiche con meno di 1.000 iscritti, 27 in meno rispetto all’anno precedente, per un totale di 52.000 aderenti; esse comprendevano un solo fondo negoziale, 8 fondi aperti, 25 Pipe ben 248 fondi preesistenti.
Delle 166 forme pensionistiche con meno di 100 iscritti, quasi la totalità (160) erano fondi pensione preesistenti; ad essi risultavano aderenti solo 2.200 persone. Nuove aggregazioni tra forme previdenziali rimangono allora auspicabili, prosegue l’Autorità di Vigilanza. Il riferimento puntuale è al comparto dei fondi preesistenti ma anche in alcuni fondi negoziali con difficoltà nell’intercettare la platea potenziale potrebbe essere valutata la confluenza in fondi di più grandi dimensioni, rendendo possibili economie di costo a vantaggio degli iscritti. Non va sottovalutato poi il ruolo in fieri che i fondi pensione possono interpretare quali investitori istituzionali, per cui appare necessario un profilo dimensionale più rilevante. La necessaria premessa posta a tal riguardo è lo storico, elevato tasso di risparmio delle famiglie italiane, anche se la congiuntura economica negativa degli ultimi anni ha messo a dura prova la capacità dei singoli di accantonare ricchezze finanziarie.
Dal punto di vista finanziario è stato però evidenziato come il settore bancario è molto più sviluppato rispetto al mercato dei prodotti finanziari. Questo sia in termini di masse monetarie complessivamente gestite, sia in termini di preponderanza degli operatori bancari anche nella intermediazione dei servizi e nella gestione degli investimenti. Tra le motivazioni va anche considerato come il sistema produttivo italiano è frammentato in un numero elevatissimo di piccole e medie imprese, che non sono in grado di affrontare i costi fissi legati alla quotazione e, al contempo, sono restie a sottoporsi al più intenso scrutinio del mercato richiesto dall’ingresso in borsa. Infatti le Pmi, che costituiscono la parte preponderante del tessuto produttivo del nostro Paese (quasi l’80%), come ha recentemente osservato la Consob in una lectio magistralis, continuano a rappresentare solo una percentuale ridotta (meno del 20%) delle società quotate, risultando fortemente sottorappresentate in borsa rispetto al loro ruolo nell’economia. Questo accentuato bancocentrismo, che caratterizza storicamente il nostro Paese, rappresenta secondo la Consob un freno per lo sviluppo delle attività produttive in quanto, a seguito della fase economica negativa che stiamo vivendo e per effetto di altri fattori esogeni e regolamentari, si assiste a un processo di progressiva contrazione del credito che non aiuta le imprese, soprattutto le più deboli, ad uscire dalla fase recessiva. Da qui l’importanza di sviluppare i mercati mobiliari, stimolando la progressiva disintermediazione del risparmio. Si tratta di un processo non immediato in cui entrano in gioco una pluralità di fattori: il livello di cultura finanziaria dei risparmiatori e degli imprenditori, la forte presenza di investitori istituzionali che agiscono sui mercati in un’ottica di lungo periodo, un elevato grado di concorrenza e di apertura del mercato dei servizi finanziari, la presenza di un quadro istituzionale in grado di preservare da truffe e raggiri soprattutto gli investitori retail. La crescita della previdenza complementare potrebbe favorire l’afflusso di ingenti capitali sul mercato, riducendo i costi sociali legati all’incapacità del sistema di garantire in futuro adeguati livelli di reddito. In qualità di investitori istituzionali, le forme di previdenza complementare possono rappresentare un importante canale di apporto di risorse finanziarie alle imprese nazionali in piena coerenza con la missione prioritaria di fornire una prestazione pensionistica adeguata al termine della vita lavorativa. Ma qual è la situazione del profilo dimensionale delle forme pensionistiche complementari in termini evolutivi?
Nel 2013 il processo di consolidamento ha riguardato in misura significativa il comparto dei fondi pensione preesistenti, il cui numero a fine 2013 si riduce di ben 31 unità rispetto alla fine del 2012. In questo comparto importanti operazioni di riassetto sono tuttora in corso, molte delle quali all’interno di gruppi bancari e assicurativi. Nel caso dei fondi pensione negoziali vi è invece una sostanziale stabilità con un numero immutato di 39 strumenti previdenziali. Con riferimento invece ai fondi pensione aperti continuano a registrarsi assestamenti realizzati attraverso operazioni di cessione dei fondi ad altra società. L’esperienza degli ultimi anni denota come questo sia in molti casi un passo preliminare alla fusione tra fondi aperti originariamente costituiti in distinte società; queste operazioni sono quindi anch’esse spesso funzionali alla realizzazione di un più ampio progetto di concentrazione. Andando alla osservazione del settore dei pip vi è invece un aumento in termini numerici. Nel 2013 sono stati istituiti infatti nove nuovi prodotti. Tale tendenza, rimarca la Covip, deve essere tuttavia valutata in uno con il rilevante numero di pip chiusi, salito dalle 21 unità del 2012 alle 25 alla fine del 2013 (circa il 30% dei pip operativi a fine anno); non raramente, si tratta di situazioni in cui una stessa società decide di lanciare un nuovo prodotto destinandolo a sostituire i prodotti già collocati, preferendo tale percorso rispetto alla modifica delle caratteristiche del pip esistente. (riproduzione riservata)