Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, meditava da molti mesi il suo trasferimento a Londra. Non è facile fare il banchiere d’affari se da due anni si è sotto indagine (dunque sotto intercettazione telefonica) e la Procura di Milano sembra aver smarrito anche il fascicolo sul presunto «papello» siglato fra Nagel e la famiglia Ligresti.
Certo, la corsa di Mediobanca verso la City (che sta risorgendo come piattaforma offshore sul piano regolamentare e fiscale, al di fuori dell’eurozona e dei fari minacciosamente puntati su «paradisi» come la Svizzera) è tutt’altro che solitaria: la stessa Fca, la «nuova Fiat» di Sergio Marchionne, avrà sede a Londra. E – soprattutto – una banca d’affari non può che «follow the money» seguire i soldi: deve cercare spazi laddove l’origination dei big deal si incrocia con i flussi globali di capitale a caccia di investimenti.
Sono anni, del resto, che Piazzetta Cuccia ha aperto una sede a Londra, rendendola via via più pesante nella propria organizzazione con l’arrivo da Rothschild di Stefano Marsaglia. Milano/Italia non è più una piazza finanziaria. L’Italia non ha più una Borsa propria (è stata incorporata da quella londinese); non ha più grandi aziende nazionali bisognose di un intermediario con lo stesso passaporto per confrontarsi con i mercati finanziari; non ha più un parco-privatizzazioni che il governo nazionale debba affidare a una banca nata e cresciuta fra le stesse partecipazioni statali. E Piazzetta Cuccia non ha più neppure un «grande fratello» cosmopolita com’è stata per decenni Lazard: la centrale della finanza ebraica che, nei fatti, tenne a battesimo il progetto Mediobanca a New York, durante il famoso viaggio di Enrico Cuccia, a seconda guerra mondiale ancora in corso.
Quella di Nagel, che pure probabilmente l’avrebbe evitata, è quindi più di una «mossa del cavallo»: anche se le contingenze giudiziarie sono un cattivo segno dei tempi. La stessa Mediobanca attraversò la prima Tangentopoli o altre crisi strutturali del sistema-Paese con ben altra forza, con ben altra capacità di pilotare e non di subire gli eventi e le mosse degli altri player. Anche se a ben guardare, proprio durante i tempi di ferro e fuoco della prima Mani Pulite, via Filodrammatici gettò le basi della progressiva «fuoriuscita» del capitalismo finanziario italiano: che può virtualmente dirsi compiuta con la delocalizzazione visibile della sua banca-simbolo.
Cosa rimane infatti del gruppo Ferruzzi, che nel ’93 sintetizzò, su uno sfondo di tragedia, un gigantesco crac finanziario con il crollo politico della Prima Repubblica? Il lungo salvataggio è stato interamente firmato dalla Mediobanca degli anni ’90, quella del tramonto del patriarca Cuccia, del regno del delfino Vincenzo Maranghi, della crescita – che allora sembrava affidabile – di generazioni di eredi: da Enrico Braggiotti e Maurizio Romiti a Nagel stesso e al suo iniziale «gemello» Matteo Arpe, fino a Renato Pagliaro.
Oggi, in ogni caso, la chimica italiana non esiste più. Edison è controllata dal colosso pubblico dell’energia francese Edf, dopo i contrasti senili fra Mediobanca e la Fiat.
Fondiaria, prima tenuta chiusa a chiave (come Generali) nella cassaforte di Mediobanca, viene poi abborracciata con Sai, male vigilata e infine malsalvata in extremis con Unipol: è cronaca recente, ormai più giudiziaria che finanziaria. E UnipolSai (in molti attorno a Piazza Affari giungono ad augurarselo) è candidata essa stessa a trovare stabilità presso un acquirente all’estero.
Mentre, in ogni caso, Mediobanca faceva da apripista per l’Opa Telecom, Cuccia e Maranghi studiavano e realizzavano l’arrocco che internazionalizzò Mediobanca ben prima che il suo Ceo chiedesse la residenza a Londra. L’auto-scalata che garantì agli investitori francesi capeggiati da Vincent Bolloré una posizione importante e solida ancora nel 2014. La successiva «scalata nazionale» di banche e Fondazioni alle Generali promossa dall’allora governatore Antonio Fazio, fu fatale a Maranghi, allo stesso governatore ma, in fondo, alla stessa Mediobanca: e non sono state le successive «pax» negoziate da personaggi come Cesare Geronzi o Giovanni Bazoli a garantire un autentico futuro strategico.
La fuga di Nagel – dopo le ritirate da Telecom e Rcs e il ridimensionamento in Generali – è, alla fine, l’esito di un lungo addio dell’Azienda-Italia a se stessa a quello che è stata: anche da quell’agosto ’46 quando (a Roma) fu costituita una «banca di credito finanziario» e non fece molta notizia.