Questo è il grido di allarme che il procuratore aggiunto di Roma, a capo del pool che indaga sui reati finanziari, dr. Nello Rossi, ha lanciato in una intervista la scorsa settimana: «Il processo si trasforma in un ambiente criminogeno, nel quale si corrompe, si falsifica, si ruba. Siamo di fronte a un segmento altamente specializzato della criminalità dei colletti bianchi: quella del giudiziario». Il sacro tempio della Giustizia profanato dai suoi stessi sacerdoti assetati di potere e denaro. Un fenomeno molto diffuso, più di quanto gli scandali di cui veniamo a conoscenza, a ritmi sempre più incalzanti, lascerebbero supporre. L’ultimo, che ha visto l’arresto di sette persone, ha smascherato un giudice del Tar del Lazio che vendeva le sentenze a un tariffario che andava da 10 mila a 50 mila euro. Il quadro complessivo è allarmante. Oltre ai giudici che vendono i provvedimenti risultano magistrati antimafia a libro paga della criminalità organizzata; giudici fallimentari che in combutta con curatori e avvocati spolpano gli attivi della procedura insinuando crediti falsi; altri giudici fallimentari che riempiono di incarichi amici con cui, poi, dividono i compensi; curatori che scappano con la cassa del fallimento – eclatante il caso milanese di alcuni anni fa in cui risultò un ammanco record, superiore a 45 milioni di euro – nella totale indifferenza dei tribunali; avvocati che instaurano cause a nome di clienti inesistenti (persone decedute o ignare) contro Enti Previdenziali, ottenendone, con la complicità del giudice, la condanna per somme rilevanti che incassano direttamente, aiutati da compiacenti funzionari di banca e che, poi, dividono assieme al giudice corrotto.
È un quadro desolante, quello tracciato dal procuratore romano, nel quale i principali protagonisti in negativo sono proprio i giudici, tanto che lo stesso dr. Rossi ha dichiarato all’intervistatore: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia».
Ma dobbiamo domandarci quale sia la causa di tale caduta di moralità. Certo, anche la corporazione giudiziaria soffre del complessivo e costante degrado che ha investito la nazione nell’ultimo ventennio, ma la causa vera della progressiva caduta etica del sistema va ricercata altrove, cioè in quel ruolo centrale di supplenza che, a partire da Tangentopoli, il magistero giudiziario ha assunto per via dell’incapacità degli altri poteri dello Stato di svolgere in modo adeguato i propri compiti istituzionali.
Come sostiene Sabino Cassese, non esiste più questione nazionale importante che non abbia risvolti giudiziari. I magistrati non si limitano più solo ad assicurare il rispetto della legge, bensì invadono il campo riservato al legislatore e al potere esecutivo. Essi danno indicazione di come debba essere riformata una legge; criticano le riforme volute dal Parlamento, anziché limitarsi, come dovrebbero, ad applicarne i principi; dettano comportamenti agli imprenditori; criticano pubblicamente – sentendosi gli unici legittimati a farlo – le sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale. Una supplenza a tutto campo che ha determinato – nella totale assenza di indirizzi correttivi da parte del Csm – la formazione di una casta che, via via, si è andata a identificare con la legge sino a sovrapporvisi.
Oggi possiamo dire che molti magistrati si ritengono essi stessi la legge. In tale delirio di onnipotenza che vede il giudice come unico potere incontrastato dello Stato, il confine tra la torsione del principio di diritto e della procedura in funzione dei propri convincimenti ideologici e la loro torsione al servizio di un interesse personale è assai incerto e per nulla presidiato. Spesso, come sosteneva il grande maestro del giornalismo italiano Indro Montanelli, il pericolo si annida proprio laddove si invoca una lettura «etica» della legge, in quanto invocazioni di tal fatta nascondono, il più delle volte, comportamenti assai disinvolti da parte di chi la propugna. «Ho conosciuto molti furfanti che non facevano i moralisti, ma non ho conosciuto alcun moralista che non fosse un furfante» amava dire Montanelli, richiamando un aforisma di J. Renard. Questo è il vero motivo per il quale il crimine si sta impossessando del processo: eccesso di potere, certezza dell’impunità, moralismo di facciata diffuso e decadimento culturale. Per fortuna ci sono ancora tanti magistrati, come Rossi, ideologicamente indipendenti, onesti, competenti e con tanta voglia di lavorare nell’interesse dei cittadini, ma con il passare del tempo quello che una volta era un esercito si va sempre più assottigliando a pattuglia sparuta. Unico antidoto, la modifica radicale delle norme sulla responsabilità civile dei magistrati che, arginando il fenomeno della applicazione arbitraria e creativa della legge da parte dei singoli, consenta ai cittadini danneggiati – nell’assoluta latitanza del Csm – di individuare più facilmente e perseguire comportamenti dolosi o gravemente colposi dei giudici. (riproduzione riservata)