Le cause per mobbing possono avere un secondo tempo. Nel primo è la vittima delle persecuzioni a rivolgersi al giudice, per ottenere giustizia e risarcimento dal datore di lavoro e/o dal persecutore. Nel secondo tempo è l’azienda o, per i dipendenti pubblici, lo stato mediante la procura, ad agire nei confronti del mobber, per conseguire l’accertamento della violazione di norme e il risarcimento di quanto abbia eventualmente dovuto corrispondere (su ordine del giudice) alla vittima della persecuzione. Un secondo tempo di particolare interesse è quello che, da ultimo, si è consumato di fronte alla Corte dei Conti della Sicilia. La sentenza, dello scorso 23 maggio, ha condannato un dirigente di un’amministrazione comunale a rifonderla parzialmente, per il danno (indiretto) arrecato al datore di lavoro che aveva dovuto corrispondere un risarcimento a un dipendente mobbizzato dal dirigente. In effetti la dequalificazione lavorativa spesso si trasforma in mobbing o comunque può esser parte di un’attività persecutoria. Dalla pronuncia della Corte dei Conti emerge che quando il mobbing culmina in una dequalificazione lavorativa prolungata, il datore di lavoro non viene coinvolto dalla responsabilità dei singoli persecutori solo se dimostra che tra le mansioni assegnate alla vittima e la condotta persecutoria non sussiste un rapporto neanche di mera occasionalità. La sentenza ha rilevato (richiamando Cass. n. 18262 del 29 agosto 2007) che la giurisprudenza civilistica «riconosce spesso la responsabilità per condotta mobbizzante del datore di lavoro, non solo quale soggetto agente direttamente, ma anche per non essersi lo stesso personalmente attivato per far cessare i comportamenti scorretti dei dipendenti».
D’altro lato, in sede contabile, in materia la condotta datoriale rileva solo se integra un caso di colpa grave, che in questa sede sussiste solo in presenza di un rilevante allontanamento dal comportamento esigibile, in considerazione delle circostanze del caso e delle specifiche disposizioni sul tema. Il datore di lavoro, pertanto, in caso di giudizio contabile, per essere esente da responsabilità deve dimostrare di aver adottato tutte le soluzioni organizzative più idonee a evitare la realizzazione dell’evento dannoso.
Il sindaco coinvolto nella vicenda è stato assolto, non solo perché la struttura organizzativa del comune è stata considerata appropriata. Secondo la Corte dei Conti anche le sue decisioni che avevano coinvolto il lavoratore perseguitato (in particolare quella di preferire per una promozione, al mobbizzato un collega) non erano dolosamente preordinate a perseguirlo e discriminarlo, e tantomeno potevano considerarsi «macroscopicamente lontane da una ordinaria condotta finalizzata alla sana gestione della cosa pubblica, al punto da incarnare una condotta gravemente corposa idonea a giustificare l’accoglimento delle pretese di parte attrice».
Peraltro la condotta mobbizzante lamentata dal dipendente non si esauriva nella mancata promozione. L’istruttoria del pubblico ministero aveva riscontrato la mancata attribuzione delle funzioni riconosciute al perseguitato nel giudizio originario (intentato per la reintegrazione), la sua collocazione in locali distaccati rispetto ai colleghi, episodi mortificanti la mancata inclusione nei turni di servizio e la preclusione di mansioni che determinavano la fruizione di indennità. Il dipendente comunale, dopo aver convenuto in giudizio il comune lamentando la propria dequalificazione, aveva ottenuto dal giudice civile il riconoscimento del diritto alla reintegrazione nelle funzioni di vice comandante reggente dei vigili urbani. In un successivo giudizio il lavoratore otteneva la condanna dell’amministrazione comunale, per mobbing, al risarcimento di euro 133.223,53. Proprio questo pagamento ha determinato prima la contestazione e poi l’azione contabile, della procura regionale nei confronti del sindaco, di una dirigente e di un comandante della polizia municipale, per il danno (indiretto) che avrebbe arrecato al comune la loro condotta mobbizzante. Solo il convenuto che, all’epoca dei fatti, rivestendo il ruolo di comandante della polizia municipale, aveva determinato le modalità attuative ed organizzative delle funzioni assegnate al mobbizzato, è stato condannato. La sentenza dello scorso 23 maggio ha deciso che dovrà corrispondere 50 mila euro (oltre rivalutazione monetaria e interessi legali) al comune. La Corte dei Conti gli ha infatti imputato l’elusione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria favorevoli al mobbizzato, mediante reiterate condotte inequivocabilmente dirette a emarginare il dipendente, isolandolo fisicamente dal resto dell’ufficio e svuotando le funzioni formalmente assegnategli. Nutrita risulta la serie di episodi sintomatici della fattiva ostilità del comandante nei confronti del vice. Spiccano le valutazioni con punteggi vicini allo zero, in sede di valutazioni basate su parametri assolutamente personali. Risaltano le informali riunioni convocate fuori dell’ufficio per informare i colleghi che il mobbizzato (sul punto di riprendere l’attività) non avrebbe ripreso servizio presso il comando, ma in locali decentrati. Il mobber aveva chiesto agli altri dipendenti di ignorare il vice (perseguitato) e per ogni disposizione di far riferimento diretto solo alla sua persona. Aveva determinato l’isolamento della vittima dai colleghi, anche costringendo il mobbizzato a effettuare una trasferta su un mezzo utilizzato in solitudine, mentre i colleghi si muovevano con un altro comune mezzo di trasporto. E se dei singoli episodi persecutori il comandante aveva fornito una giustificazione, la sentenza rileva che le componenti del mobbing non possono essere considerate singolarmente ma in considerazione della complessiva condotta intrapresa nei confronti della vittima. La Corte dei Conti ha invece assolto (oltre al sindaco) una dirigente che aveva intrattenuto per breve tempo un rapporto lavorativo con il perseguitato, per mancanza del requisito temporale necessario al perfezionamento del mobbing. La sentenza ha ritenuto infatti che la condotta persecutoria per integrare il mobbing debba avere quantomeno durata semestrale, coerentemente con Cass. n. 22858 dell’11 settembre 2008 che ha ritenuto sufficiente l’entità semestrale rigettando i rilievi datoriali sulla pretesa brevità di questo periodo.
Di particolare interesse, in materia, risulta la sentenza della Suprema Corte n. 12445 del 25 maggio 2006. In questo caso, in relazione a un caso in cui il mobber era il presidente di un’associazione, detta pronuncia ha ritenuto che incombesse sull’associazione, contrattualmente tenuta a tutelare il dipendente, in base all’art. 2087 cod. civ., l’onere di provare di avere adottato tutte le misure necessarie a prevenire l’evento dannoso, mentre nella fattispecie in esame l’associazione si era limitata a sostenere di avere deferito il presidente al collegio dei probiviri attuando (secondo la sentenza) un’iniziativa diretta alla repressione e non alla prevenzione dei fatti mobbizzanti, pertanto non idonea a costituire adempimento degli obblighi previsti dall’art. 2087 cod. civ.