A 22 MESI DALLA PRIMA INCURSIONE DELFIN HA INVESTITO 1,7 MILIARDI IN MEDIOBANCA E PRESTO POTREBBE VEDERE EMERGERE UNA PLUSVALENZA
Luca Gualtieri
Il codice di molte battaglie combattute nella galassia del Nord anteponeva la logica del potere a quella profitto, retaggio forse del giansenismo di Enrico Cuccia o, più prosaicamente, stortura del vecchio capitalismo di relazione. In tal senso è stata letta anche la silenziosa ascesa di Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone nel capitale di Mediobanca: in 22 mesi il primo si è portato al 19% della merchant bank e potrebbe presto balzare al 19,99%, mentre il secondo è proiettato oltre il 5%. Ruggini dopo la partita Ieo-Monzino, malumori sulla corporate governance di Generali, rimescolamento di equilibri sull’asse Roma-Parigi. Sono state date molte interpretazioni delle mosse dei due imprenditori i quali, con la compostezza che li contraddistingue, si sono ben guardati dall’esporsi direttamente. Chi però li conosce bene sa che, pur con le loro profonde differenze, Del Vecchio e Caltagirone sono molti attenti nell’allocazione dei propri capitali. E questo malgrado la cospicua riserva di liquidità di cui dispongono. Ecco perché, al di là delle battaglie di potere, l’investimento in Mediobanca è stato anche un’oculata scelta finanziaria. Che bilancio si può fare oggi di quella scelta? Del Vecchio finora ha investito circa 1,7 miliardi con un prezzo medio di acquisto di 9,7 euro. Dopo gli acquisti del 2019 (fatti in una forchetta compresa tra 9,5 e 10,8 euro) la pandemia ha zavorrato la partecipazione, causando a Delfin una consistente minusvalenza potenziale. Dall’inizio di quest’anno però il titolo Mediobanca ha ripreso quota (solo negli ultimi sei mesi ha guadagnato il 33,8% contro il +21,77% dell’indice Ftse Italia Banche) e presto l’investimento di Delfin potrebbe tornare profittevole. Anche di molto. Più lineare la salita di Caltagirone che sinora ha investito oltre 240 milioni a un prezzo di acquisto medio di 9-9,1 euro. Il costruttore romano è entrato il 23 febbraio scorso rastrellando l’1,014% per poi portarsi al 3,003% a metà luglio attraverso acquisti sul mercato e put. Ulteriori opzioni potrebbero essere esercitate tra agosto e settembre, portando la partecipazione oltre il 5%. Che l’incremento abbia luogo non è scontato perché, come fa per gli acquisti di titoli Generali, anche in Mediobanca Caltagirone si muoverà opportunisticamente sulla base dell’andamento delle azioni. Segno ancora una volta che le metriche finanziarie stanno giocando un ruolo di primo piano. Il che ovviamente non significa che la partita sia esclusivamente finanziaria.
Che gli acquisti di Del Vecchio e Caltagirone non puntino a destabilizzare la merchant bank guidata da Alberto Nagel è un messaggio che i compratori hanno fatto passare con chiarezza. «Fin quando ci saranno i risultati, il management non penso abbia nulla da temere», ha dichiarato per esempio Del Vecchio in una recente intervista al Messaggero. Parole confermate, almeno sinora, dai fatti visto che all’assemblea di rinnovo del cda dell’ottobre scorso, Delfin ha appoggiato la lista di Assogestioni astenendosi da operazioni di disturbo nei confronti del vertice. È tuttavia difficile non leggere l’attivismo dei due imprenditori come un segnale indirizzato alla prima linea di Piazzetta Cuccia, che nei prossimi mesi sarà impegnata nel delicato rinnovo del vertice di Generali. Se infatti il board della compagnia scadrà nella primavera del 2022, già a settembre si metterà in moto la macchina per individuare i nuovi amministratori, come previsto dal sistema di governance monistico approvato lo scorso anno. Sul tema il consiglio di amministrazione potrebbe iniziare a confrontarsi già nella riunione del prossimo 5 agosto (quando verranno approvati i risultati semestrali), anche se per ora la palla rimane in mano agli azionisti.
Tra questi gli scontenti sono diversi e il loro pressing potrebbe progressivamente salire tra luglio e settembre. Se Caltagirone spinge per un assetto più plurale della governance, Del Vecchio ha un disegno strategico in mente: «Riportare Generali al ruolo di leader che aveva nel mercato europeo alla fine degli anni 90 e che poi ha perso», come ha dichiarato qualche mese fa. Ma è soprattutto sulla prima linea che il confronto si è preannuncia più accesso. La richiesta di Caltagirone è quella di aprire un confronto alla pari con gli altri azionisti a partire da Mediobanca (12,9%) che sinora ha sempre gestito i rinnovi della compagnia. L’obiettivo? Un cambiamento che porti al vertice un manager di elevato standing esperto in tecnologia, taglio dei costi e m&a. Possibilmente in ticket con un nuovo presidente. Per parte sua Mediobanca ha sinora apprezzato i risultati portati dal ceo Philippe Donnet: la buona posizione di capitale, il migliore combined ratio tra i concorrenti, un total shareholder return del 95% dal novembre 2016 a oggi. A fronte di questi risultati, si argomenta, risulta assai difficile giustificare un ricambio del manager. A Trieste si andrà dunque allo scontro? Non è detto, anche perché Mediobanca avrà un approccio laico alla partita avendo cura di preservare l’autonomia del board e la trasparenza della governance. Ma soprattutto non è detto che Piazzetta Cuccia voglia conservare ad ogni costo lo storico legame con Trieste. In più di un’occasione il vertice della merchant (che pure ha 1,1 miliardi di capitale in eccesso) si è detto disponibile a liquidare parte della quota per finanziare acquisizioni.
Che effetti avranno questi rimescolamenti su Mediobanca? La risposta non è scontata. Dopo il rinnovo dello scorso anno il cda guidato da Nagel e presieduto da Renato Pagliaro ha davanti altri due anni di mandato e per l’assemblea del prossimo ottobre non ci si attendono sorprese. Vero è però che, con assetti di controllo in profonda trasformazione, è difficile escludere ripercussioni sulla governance. Pur essendo rappresentata in cda dagli amministratori in quota Assogestioni che l’anno scorso ha sostenuto, Delfin potrebbe per esempio chiedere una rappresentanza diretta nel board.
Senza considerare che il nocciolo degli azionisti storici si è progressivamente sfarinato negli ultimi anni. Con l’uscita di Fininvest l’accordo di consultazione è sceso al al 10,6% e oggi è di fatto incardinato sui Doris che hanno in mano circa il 3%. Anche se è presto per fare previsioni, qualche socio ipotizza che alla scadenza di fine anno l’accordo potrebbe essere smontato. Diversi indizi insomma suggeriscono che il cambiamento potrebbe essere alle porte anche per Piazzetta Cuccia. Sempre che il ritorno degli investimenti fatti sino ad allora non convincano i nuovi soci a dare fiducia alla strategia e al management. Sarebbe una scelta guidata quasi esclusivamente dalla logica del profitto, qualcosa insomma di abbastanza inedito nelle partite della Galassia del Nord ma che ancora nessuno si sente di escludere. (riproduzione riservata)
Con la scalata di Delfin il capitalismo famigliare torna in banca
di Luca Gualtieri
Le strade del capitalismo famigliare e del sistema bancario si sono separate ormai da qualche decennio. Almeno da quando la globalizzazione dei mercati, la pervasività dei regolatori e l’attivismo degli investitori istituzionali hanno mutato gli assetti di controllo dei grandi istituti di credito. Dopo la crisi del 2008 quasi tutte le banche internazionali si sono convertite per scelta o per necessità al modello di public company e le eccezioni oggi sono rare.
Una di queste è rappresentata dalla partecipazione che Leonardo Del Vecchio detiene in Mediobanca. Delfin, la cassaforte con cui Mister Luxottica ha raggiunto il 19% di Piazzetta Cuccia, può considerarsi una holding a proprietà famigliare visto che Del Vecchio detiene il 25% (quota che passerà alla moglie Nicoletta Zampillo) e ha il diritto di usufrutto e quindi di voto per il restante 75% equamente suddiviso fra i sei figli Claudio, Marisa, Paola, Leonardo Maria, Luca e Clemente. Negli ultimi due anni la merchant ha insomma assunto un assetto diverso da quello che aveva in mente il ceo Alberto Nagel avviando all’inizio del decennio scorso il percorso verso la public company. Se è vero infatti che la quota detenuta da Delfin è classificata come partecipazione finanziaria e che la governance dell’istituto non ha ancora subito scossoni, non vi è dubbio che il nuovo assetto proprietario di Mediobanca costituisca quasi un unicum a livello internazionale. Intendiamoci, in Italia esistono altre banche a proprietà famigliare: a Reggio Emilia i Maramotti mantengono le redini del ben gestito Credito Emiliano, a Biella i Sella sono banchieri da quasi un secolo e mezzo, mentre il Banco di Desio è da sempre legato alle famiglie Gavazzi e Lado. Occorre però ricordare che, se da un lato queste governance sono eredi di lunghe e consolidate tradizioni, dall’altro lato le dimensioni degli istituti restano contenute.
Ecco perché per trovare esempi pur lontanamente accostabili al caso Mediobanca occorre guardare all’estero. Un paragone possibile è quello con la galassia dei Rothschild, che con il proprio ramo franco-britannico controlla la parigina Rothschild & Co (specializzata nell’investment banking) mentre con il ramo svizzero sostiene la ginevrina Edmond de Rothschild con un forte focus su asset management e private banking. Il nome è tra i più blasonati nella finanza internazionale anche se i dissidi interni non sono mancati, come la recente disputa sull’utilizzo del marchio Rothschild risolta con un accordo tra i diversi rami della dinastia.
Meno complesse sono le geografie del potere all’interno della famiglia Johnson, che dal Secondo Dopoguerra è azionista di riferimento dell’americana Franklin Templeton Investments, uno dei più grandi gruppi al mondo di risparmio gestito con oltre 750 miliardi di dollari di asset. Oggi la dinastia è arrivata alla terza generazione e le redini sono recentemente passate a Jennifer Johnson (volitiva nipote del fondatore Rupert), che nel 2019 è stata nominata ceo del gruppo.
Passando alle banche universali si trova il caso della Scandinavian Individual Bank, gruppo svedese con sede a Stoccolma controllato dalla famiglia Wallenberg. Oltre ad aver espresso personaggi di primo piano nella vita pubblica del Paese, i Wallenberg sono anche investitori molti attivi e hanno collezionato partecipazioni nei maggiori gruppi industriali svedesi.
Nemmeno in Brasile la presenza di grandi famiglie nel capitale delle banche è una rarità. Il Banco Bradesco per esempio, terzo istituto del Paese per attività, è legato al nome della dinastia paulista degli Aguiar, che dopo averlo fondato nel 1943 ne è rimasta fino ad oggi azionista indiretta. Nel 2008 altre due famiglie, i Salles del Minas Gerais e gli Aranha di San Paolo, hanno tenuto a battesimo la fusione tra Itaú e Unibanco che ha dato vita al più grande istituto di credito del Sudamerica. Particolarmente vivace è anche il panorama dell’Estremo Oriente. I Wee hanno per esempio hanno le redini del terzo istituto di Singapore, la United Overseas Bank, mentre la taiwanese Fubon Financial fa riferimento alla ricchissima famiglia Tsai.
Senza dubbio però il gruppo che ha saputo coniugare meglio tradizione e innovazione sia in termini di assetti proprietari che di strategia è stato il Banco Santander, dove la famiglia Botin, pur senza abbandonare la presa sul gruppo, ha assecondato i cambiamenti dando spazio a mercato e management. Forse anche per questo oggi i Botin sono rimasti l’unica (e forse ultima) dinastia al timone di un gruppo finanziario europeo. Con il beneplacito di una Bce che – si sa – all’azionista unico preferisce governance plurali con oliati meccanismi di check and balance.
A quale di questi possibili modelli si ispirerà la famiglia Del Vecchio nella partita Mediobanca? Non è ancora dato saperlo e nemmeno è chiaro se gli acquisti fatti sinora da Mister Luxottica rispondano a logiche industriali o siano solo un modo per mettere alle strette il primo azionista delle Generali. Di certo in Piazzetta Cuccia ha preso forma un unicum del panorama bancario europeo ed è ovvio che i regolatori ne seguiranno con meticolosa cura l’evoluzione. (riproduzione riservata)
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