Francesco Bertolino
Una macchina da oltre 100.000 miliardi di dollari. Nell’anno della pandemia l’industria del risparmio gestito ha incrementato il patrimonio dell’11% passando da 93 mila 103 mila miliardi. Lo calcola Boston Consulting Group nello studio Global Asset Management 2021. E dire che a inizio marzo il cigno nero sanitario sembrava aver cancellato in pochi giorni guadagni di anni, rompendo le corna al Toro azionario e bruciando 16 mila miliardi sulle borse globali. Poi, grazie al sostegno di banche centrali e governi, i listini hanno presto recuperato e superato i livelli pre-pandemici, contribuendo a gonfiare i portafogli. Con la rimonta dei mercati sono tornati anche la fiducia e i flussi degli investitori, che nel 2020 hanno affidato ai gestori risparmi per 2.800 miliardi di dollari. Le masse sono così lievitate di 10 mila miliardi a livello globale, con una crescita distribuita più o meno equamente nel mondo: il gestito è salito del 12% a 45 mila miliardi di dollari in Nordamerica, del 10% a 25 mila miliardi in Europa, dell’11% a 22 mila miliardi nella regione Asia-Pacifico, del 9% in Sudamerica a 1.800 miliardi e del 12% a 1.400 miliardi nell’area Medioriente-Africa. In Italia l’aumento è stato un po’ più basso, del 6% a 2.200 miliardi di dollari. «Il tasso di crescita è inferiore al dato globale ma è comunque elevato, specie se si considera l’eccezionalità delle circostanze e il fatto che la pandemia ha colpito il Paese prima e più a lungo che altrove», spiega Giovanni Covazzi, principal di Bcg. «Inoltre il portafoglio degli investitori italiani è storicamente meno esposto sull’azionario e quindi il rimbalzo delle borse globali si è riflesso meno sui patrimoni gestiti».

L’asset management insomma non sembra conoscere crisi. Eppure dalle pieghe dei bilanci emerge un dato sorprendente: pur avendo incrementato il fatturato del 5% a 331 miliardi di dollari la macchina da 100.000 miliardi fatica a macinare profitti. Nel 2020 l’utile operativo dell’industria del risparmio gestito è rimasto stabile al 34% dei ricavi e negli ultimi cinque anni gli introiti sono scesi del 4,6% in rapporto alle masse gestite. Il motivo? Gli investimenti nella tecnologia e nella sostenibilità hanno fatto lievitare i costi. Gli asset manager stanno destinando molte risorse alla digitalizzazione delle reti di distribuzione e allo studio dei dati, innovazioni non più rinviabili dopo la crisi pandemica. Secondo un sondaggio condotto da Bcg e Imea (Investment Management Education Alliance), oggi il 75% dei gestori utilizza canali digitali di relazione con almeno un quarto dei clienti. Analizzando le informazioni così raccolte con algoritmi e intelligenza artificiale questi asset manager sono in grado di intercettare in anticipo i segnali di insoddisfazione e le nuove esigenze dei clienti, riducendo fra il 5 e il 10% i riscatti e del 20% i volumi di cross-selling interno.

La ragione principale del calo degli utili è però la stagnazione dei ricavi, figlia dell’avanzata dei replicanti. L’anno scorso il patrimonio di Etf e fondi indicizzati è cresciuto del 17% a 15 mila miliardi ma la loro quota sul giro d’affari totale è rimasta stabile al 6%, segno che per il momento i gestori passivi non hanno alcuna intenzione di alzare le commissioni e anzi le stanno abbassando ancora per sottrarre clienti agli attivi. «Benché globale, la pressione sui margini si avverte anche in Italia ma con minor accelerazione», precisa, «per via sia della penetrazione più bassa dei fondi passivi sia degli accordi pluriennali fra asset manager e distributori che diluiscono nel tempo le dinamiche di prezzo». L’aumento degli investimenti e l’incalzante concorrenza dei replicanti stanno comunque spingendo molti asset manager ad aggregarsi per condividere i costi su una più ampia base di ricavi. «All’estero la compressione dei margini rende prioritario il raggiungimento delle economie di scala e quindi fa da detonatore al m&a», osserva. «In Italia la dimensione è altrettanto rilevante, ma il consolidamento del risparmio gestito sarà probabilmente una derivata del risiko bancario, considerati gli stretti legami fra i due settori».

A favore del consolidamento milita peraltro anche la volontà di molti asset manager di entrare nel mercato degli investimenti alternativi, tramite alleanze o fusioni con operatori specializzati. Nonostante rappresentino soltanto il 15% del patrimonio gestito globale, infatti, questi fondi catturano il 40% del fatturato dell’industria e sono sempre più richiesti da investitori istituzionali e non, come dimostra la crescita del 20% delle munizioni disponibili per i private equity nel 2020. «Gli investimenti alternativi garantiscono superiori ricavi agli asset manager, ma offrono vantaggi anche agli investitori non solo in termini di rendimento, ma anche perché la loro minor liquidità impedisce riscatti affrettati e intempestivi nei momenti di tempesta», rimarca Covazzi. «Il retail mostra un interesse crescente per questi prodotti e i gestori sono al lavoro per adeguare l’offerta: oggi gli investimenti alternativi riguardano soprattutto il private banking, ma stanno scendendo rapidamente la piramide», prosegue, «diventa allora ancor più importante sviluppare adeguatamente l’educazione finanziaria e l’informativa alla clientela per evidenziare che questi attivi possono dare rendimenti superiori, ma possono presentare anche rischi più alti».

In Italia questo movimento appare più lento: vuoi per maggior prudenza vuoi per la già citata minor pressione sulle commissioni di gestione, il 77% dei patrimoni dei piccoli risparmiatori è tuttora investito in fondi comuni. Un eventuale travaso verso gli alternativi avrebbe però effetti dirompenti sul mercato domestico. Il retail contribuisce infatti per il 66% dei 2200 miliardi di dollari di patrimonio nazionale, con un rapporto invertito rispetto all’assetto globale dove sono gli istituzionali a detenere il 59% delle masse affidate agli asset manager. «La preponderanza del retail deriva dal fatto che l’industria del risparmio gestito in Italia è da sempre legata al mondo bancario, con forti accordi di distribuzione sulla propria base di risparmiatori, e da una minor presenza di investitori istituzionali, quali i fondi pensione, invece storicamente molto rilevanti ad esempio nel mondo anglosassone«, ricostruisce. «Detto questo», conclude Covazzi, «il ruolo degli istituzionali sta crescendo di pari passo con l’offerta di prodotti loro dedicati: le assicurazioni rappresentano ancora oltre due terzi di questo segmento, ma anche i fondi pensione si stanno sviluppando». (riproduzione riservata)

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