Luca Gualtieri
Alla fine degli anni ottanta nello studio di John Weinberg, allora senior partner di Goldman Sachs, troneggiava il tombstone dell’ipo Ford del 1956, prima grande operazione di cui la banca d’affari americana era stata protagonista. Ogni anno Weinberg cancellava un certo numero di nomi dal lunghissimo elenco di istituti che in vari ruoli avevano partecipato al deal: erano le banche che avevano smesso di esistere o per una fusione o per un’acquisizione o per un fallimento. Claudio Costamagna sorride nel raccontare questo aneddoto: «Mi chiedo quanti altri nomi Weinberg avrebbe cancellato per arrivare ai giorni nostri. Solo negli ultimi 13 anni, dalla grande crisi del 2008 a oggi, la geografia del sistema finanziario globale è cambiata profondamente e la pandemia potrebbe accelerare ancor di più la trasformazione». In ogni caso, dopo quasi 20 anni ai vertici di Goldman, Costamagna ha smesso di essere un banker nel 2006 e da allora ha esplorato ben altre latitudini del tessuto produttivo. Come amministratore di società del calibro di Luxottica, Bulgari o Salini Impregilo, come advisor di numerose operazioni di m&a e, più di recente, come investitore tramite la CC Soci la boutique da lui presieduta che conta un team di una decina di persone. Proprio in quest’ultimo ruolo oggi sta giocando l’ultima partita in ordine di tempo, in tandem con Alberto Minali.
Domanda. Costamagna, insieme a Minali con la spac Revo vi siete appena aggiudicati Elba Assicurazioni. Come è nato il progetto?
Risposta. Per fare un investimento servono tre cose: l’idea, i capitali e la capacità di esecuzione. Le prime due cose spesso non sono un problema. Molti di noi possono avere idee più o meno buone e la liquidità, in una fase storica come questa, non manca. La capacità di esecuzione invece è un fattore assai più raro e per questo può fare la differenza. Ecco perché, nell’intraprendere nuove iniziative, ci affidiamo sempre a manager di comprovata esperienza che conoscono bene il settore in cui scelgo di investire. Ci è accaduto con Diego Piacentini in Expert.AI e con Alberto Trondoli in Tiscali. Con Revo abbiamo scelto di condividere un progetto di Alberto Minali, che conosco e stimo. Attraverso la spac volevamo comprare un target piccolo ma scalabile su cui costruire una strategia innovativa. In Elba Assicurazioni abbiamo trovato tutto questo e, completata l’acquisizione, l’obiettivo sarà far crescere la società che già oggi è molto forte nel mercato delle cauzioni e delle fidejussioni. Una strategia che perseguiremo facendo leva soprattutto sul digitale e sui big data per migliorare la qualità del servizio e accelerare i tempi di risposta rispetto all’offerta dei competitor.
D. Perché avete scelto di investire proprio nel settore assicurativo italiano?
R. Si tratta di un settore che sconta ancora un certo ritardo nell’adozione delle nuove tecnologie e che quindi presenta ampi margini di crescita su questi fronti. Una sfida insomma per imprenditori che vogliano innovare.
D. Revo non è comunque la sola scommessa che ha fatto in questi ultimi anni. Quali altri investimenti state seguendo e con che risultati?
R. Il portafoglio è abbastanza ampio. Abbiamo Expert System.AI, attiva sull’intelligenza artificiale, che sta crescendo molto soprattutto negli Usa e che dall’Aim potremmo presto portare sul listino principale. C’è la bresciana New Oxydal, specializzata nei trattamenti di anodizzazione dei metalli. C’è la Fratelli Magni di Gorgonzola che produce una vasta gamma di termometri e manometri. E ci sono alcune start up, e altre che ormai sono attive da tempo con successo come Credimi. Infine voglio ricordare una start up molto promettente attiva nella digital health come Hook che di recente ha siglato un’accordo con Previmedical. Lavorare con giovani di talento come il suo fondatore Lorenzo Granato è sempre un’esperienza appassionante per me.
D. Oggi molti giovani imprenditori preferiscono lavorare in start up che nelle piccole aziende. Un segnale di cui le aziende dovrebbero tener conto?
R. Oggi il mondo delle piccole aziende è ancora a metà del guardo. Il passaggio generazionale non è più scontato e i figli preferiscono costruirsi un percorso alternativo, magari in una start up. Questo cambiamento culturale andrebbe assecondato e accompagnato, mettendo a disposizione i capitali necessari per la crescita. Se spesso le dimensioni della piccola impresa sono troppi ridotte per attrarre i private equity, c’è sicuramente spazio per operatori come noi. Alle aziende infatti siamo in grado di offrire le risorse, il know how e l’esposizione internazionale di cui hanno bisogno in una delicata fase di transizione come quella che stanno attraversando.
D. Nel suo portafoglio manca il settore del turismo. Una scelta strategica o un caso?
R. Devo dire che le opportunità di investimento nascono spesso in modo casuale e l’assordimento del nostro portafoglio non è stato predeterminato. Ammetto però di avere delle perplessità sul settore turistico oggi. Non solo per la difficoltà di prevedere gli effetti del Covid che senza dubbio non saranno trascurabili. Ma anche perché il settore rimane molto frammentato proprio in una fase in cui la scala sta diventando sempre più importante.
D. Eppure il turismo fu uno dei settori su cui lavorò più intensamente da presidente di Cassa Depositi e Prestiti.
R. Certamente. Proprio a questo scopo avevamo costituito il Fondo Investimenti per il Turismo con il quale abbiamo fatto investimenti importanti in diversi capoluoghi italiani. Come sempre però occorre ricordare che Cdp è uno strumento di politica industriale e che la politica industriale deve essere decisa in prima battuta dal governo.
D. Lei che rapporto ha avuto con il governo italiano durante la permanenza in Cdp?
R. Complessivamente il bilancio è stato positivo. La posizione mi venne offerta dall’allora premier Matteo Renzi che Andrea Guerra mi aveva presentato un mese prima. Accettai l’incarico dopo aver chiesto una chiara distinzione di ruoli che garantisse l’indipendenza degli amministratori e devo ammettere di non aver mai subito pressioni o interferenze dall’esecutivo. Senza dubbio Cdp rimane una macchina molto complessa sia da capire che da gestire e chi la guida dovrebbe disporre di tutto il tempo necessario per imparare a governarla. E visto il recente cambio di Management auguro all’Istituzione il meglio che merita.
D. Lei nasce come banchiere. Dopo la prova impegnativa della pandemia, che ruolo possono avere le banche nel processo di ristrutturazione, consolidamento e crescita del tessuto economico italiano?
R. Mi aspetto che in ambiti specifici e ad alto valore aggiunto come l’m&a o il restructuring il ruolo delle banche resti centrale anche nei prossimi anni e che, semmai, si porrà il problema delle fonti di capitale. Sarebbe però opportuno che le aziende italiane si avvicinassero a strumenti di finanziamento alternativi al credito bancario. Alludo al private debt, al coinvolgimento di private equity, alla quotazione in Borsa, ai Pir che negli ultimi anni si sono rivelati canali preziosi per diversificare la capital structure. Sospetto però che il quadro sia molto più complesso per il retail banking dove la trasformazione tecnologica partita all’inizio del secolo rischia incrinare definitivamente il modello di business aprendo la strada a nuovi operatori. (riproduzione riservata)
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