L’INTERPRETAZIONE DEI CRITERI DI IMPUTAZIONE SECONDO LE RINNOVATE LINEE GUIDA DEGLI INDUSTRIALI
In tema di responsabilità da reato degli enti derivante da reati colposi, i concetti di interesse e vantaggio vanno ben distinti e si riferiscono alla condotta e non all’evento. È l’interpretazione giurisprudenziale cui Confindustria ha aderito nella nuova guida per l’aggiornamento dei modelli «231». Infatti, in occasione del ventesimo «anniversario» dall’entrata in vigore del dlgs 231/2001, l’associazione degli industriali ha pubblicato un nuovo aggiornamento delle «Linee guida per la costruzione dei Modelli di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231». L’obiettivo è offrire alle imprese una serie di indicazioni e misure, essenzialmente tratte dalla pratica aziendale, idonee a rispondere alle esigenze delineate dal decreto «231».
Gli obiettivi perseguiti. A sette anni dalle ultime modifiche, Confindustria ha nuovamente revisionato le «Linee guida per la costruzione dei Modelli di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231», con un aggiornamento che conserva la medesima struttura e analizza le novità normative e giurisprudenziali intervenute nel frattempo.
Confindustria si propone così di offrire alle imprese che abbiano scelto di adottare un modello di organizzazione e gestione una guida per la sua predisposizione. Tuttavia, data l’ampiezza delle tipologie di enti presenti nella realtà associativa di Confindustria e la varietà di strutture organizzative di volta in volta adottate in funzione sia delle dimensioni sia del diverso mercato geografico o economico in cui essi operano, tali linee guida dovranno essere calate e calibrate sulla base delle peculiarità delle diverse realtà aziendali.
In altre parole, pur non essendo proponibile la costruzione di casistiche decontestualizzate da applicare direttamente alle singole realtà operative, le Linee guida mirano a orientare le imprese nella realizzazione dei modelli, raccomandando al contempo di compiere una seria e concreta opera di implementazione delle misure adottate nel proprio contesto organizzativo.
Il modello non deve rappresentare un adempimento burocratico, una mera apparenza di organizzazione, bensì, raccomanda il documento, deve vivere nell’impresa, aderire alle caratteristiche della sua organizzazione, evolversi e cambiare con essa.
Tassatività a rischio disapplicazione. Tra le tematiche prese in esame da Confindustria, vi è una riflessione sui reati la cui commissione da parte degli apicali o dei soggetti sottoposti alla direzione degli stessi fa scattare la responsabilità «231», posto che, per espresso dettato del decreto, occorre che si tratti di uno degli illeciti presupposto indicati in via tassativa negli articoli 24 e seguenti.
Segnala in particolare Confindustria come il principio di tassatività dei reati che possono comportare la responsabilità dell’ente è stato messo in discussione da un recente orientamento interpretativo dottrinale emerso in relazione al reato-presupposto di autoriciclaggio (art. 25-octies dlgs 231/2001).
Al riguardo, si registrano due orientamenti: da un lato, quello per cui la responsabilità «231» sarebbe limitata ai casi in cui il reato base dell’autoriciclaggio sia anche uno dei reati-presupposto indicati nel decreto; dall’altro, quello per cui la richiamata responsabilità si configurerebbe anche in presenza di ulteriori fattispecie di reato base. Peraltro, l’adesione all’uno o all’altro indirizzo non è certo priva di effetti pratici: si rileva infatti che, per effetto dell’interpretazione estensiva (la seconda sopra richiamata), l’ente potrebbe incorrere nella responsabilità «231» anche in relazione a reati estranei al catalogo contenuto nel decreto. Tale catalogo perderebbe così la natura tassativa e risulterebbe integrato attraverso il rinvio indeterminato a ulteriori fattispecie di reato, con la conseguente difficoltà di predisporre adeguate misure di prevenzione e il rischio di allargare l’ambito di applicazione dei modelli «231» a ulteriori aree di compliance non ricomprese nell’ambito del decreto «231».
Interesse e vantaggio ad ampio raggio. Premesso che l’ente può essere ritenuto responsabile dell’illecito se il reato è stato commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, le Linee guida affrontano la dibattuta questione dell’esatta delimitazione dell’ambito operativo di tali criteri di imputazione.
Nella decodificazione degli stessi, l’aspetto attualmente più controverso attiene all’interpretazione dei termini «interesse» e «vantaggio».
Secondo l’impostazione tradizionale, elaborata con riferimento ai delitti dolosi, l’interesse ha un’indole soggettiva. Si riferisce alla sfera volitiva della persona fisica che agisce ed è valutabile al momento della condotta: la persona fisica non deve aver agito contro l’impresa. Se ha commesso il reato nel suo interesse personale, affinché l’ente sia responsabile è necessario che tale interesse sia almeno in parte coincidente con quello dell’impresa (cfr. anche Cass pen., sez. V, n. 40380/2012). Al riguardo, Confindustria segnala il recente orientamento della Cassazione che sembra evidenziare la nozione di interesse anche in chiave oggettiva, valorizzando la componente finalistica della condotta (Cass. pen., sez. II, n. 295/2018; sez. IV, n. 3731/2020).
Per contro, il vantaggio si caratterizza come complesso dei benefici, soprattutto di carattere patrimoniale, tratti dal reato, che può valutarsi successivamente alla commissione di quest’ultimo (cfr. Cass., sez. II, n. 295/2018), anche in termini di risparmio di spesa (Cass., sez. IV n. 3731/2020).
Tuttavia, quando il catalogo dei reati-presupposto è stato esteso per includervi quelli in materia di salute e sicurezza sul lavoro (art. 25 septies del decreto 231) e poi i reati ambientali (art. 25 undecies), si è posto un problema di compatibilità del criterio dell’interesse o vantaggio con i reati colposi. Si pensi, infatti, ai reati in materia di salute e sicurezza: difficilmente l’evento lesioni o morte del lavoratore può esprimere l’interesse dell’ente o tradursi in un vantaggio per lo stesso.
In questi casi, la giurisprudenza ha chiarito che l’interesse o vantaggio dell’ente debbano piuttosto riferirsi alla condotta inosservante delle norme cautelari, e possono così, come di recente ribadito dalla Corte di cassazione, ravvisarsi nel risparmio di costi per la sicurezza ovvero nel potenziamento della velocità di esecuzione delle prestazioni o nell’incremento della produttività, sacrificando l’adozione di presidi antinfortunistici. (cfr. anche Cass., sez. IV, n. 3157/2019 e n. 3731/2020). Sulla base di tali premesse, alcune pronunce giurisprudenziali hanno ravvisato l’interesse nella tensione finalistica della condotta illecita dell’autore volta a beneficiare l’ente stesso, in forza di un giudizio da riportare al momento della violazione della norma cautelare. Si ritengono imputabili all’ente solo le condotte consapevoli e volontarie finalizzate a favorire la società. Per contro, sarebbero irrilevanti le condotte derivanti dalla semplice imperizia, dalla mera sottovalutazione del rischio o anche dall’imperfetta esecuzione delle misure antinfortunistiche da adottare.
Altra parte della giurisprudenza e della dottrina ha invece inteso anche il criterio dell’interesse in chiave oggettiva, riferendolo alla tendenza obiettiva o esteriormente riconoscibile del reato a realizzare un interesse dell’ente. Si dovrebbe, dunque, di volta in volta accertare solo se la condotta che ha determinato l’evento del reato sia stata o meno determinata da scelte rientranti oggettivamente nella sfera di interesse dell’ente. Con la conseguenza che in definitiva, rispetto ai reati colposi, il solo criterio davvero idoneo a individuare un collegamento tra l’agire della persona fisica e la responsabilità dell’ente, sarebbe quello del vantaggio, da valutarsi oggettivamente a posteriori.
Dunque, le Linee guida ritengono di avallare la prima tesi, che tiene distinti interesse e vantaggio anche nei reati colposi, in quanto pare riflettere più fedelmente il sistema del decreto «231», che mostra di considerare disgiuntamente i due concetti.
Fonte: