In 11 anni le quotate globali hanno pagato ai soci 17 mila miliardi di dollari fra dividendi e buyback. Molte si sono indebitate esponendosi agli shock. Poi sono arrivati il Covid e gli aiuti di Stato
di Francesco Bertolino
Accolta dal giubilo di Wall Street, a dicembre 2017 Boeing annunciava un acquisto di azioni proprie per 18 miliardi di dollari. Merito, sottolineava il board del costruttore di aerei, «della gestione disciplinata della cassa, della solidità finanziaria e delle prospettive di lungo termine delle attività». Meno di un anno più tardi l’incidente al velivolo 737 Max avviava per Boeing una spirale negativa di eventi. Ad aprile 2019 cause giudiziarie, interdizioni al volo e ordini annullati convincevano la società a interrompere il piano di buyback dopo aver restituito ai soci 43 miliardi di dollari dal 2013, più degli utili realizzati nel periodo. A dicembre 2019, a due anni dalla comunicazione trionfale, Boeing cacciava il ceo Dennis Muilenburg con un assegno da 62 milioni, frutto perlopiù di azioni e stock option non esercitate.
L’esplosione della pandemia ha fatto il resto. In una posizione finanziaria già precaria, Boeing è giunta sull’orlo di un salvataggio pubblico da 17 miliardi. Il bailout è stato sinora evitato grazie all’emissione di un maxi-bond da 25 miliardi, resa possibile dalle misure straordinarie anti-crisi messe in campo dalla Federal Reserve. Ma con 54 miliardi di debiti, 22 volte il risultato operativo atteso, e una lunga crisi economica alle porte Boeing potrebbe aver solo rimandato il soccorso dello Stato.
La parabola del colosso aeronautico americano descrive bene il rapporto perverso fra remunerazione dei soci, compensi dei manager e debito. Mentre l’associazione dei più potenti ceo al mondo proclamava la fine del «primato degli azionisti», fra 2009 e 2019 le quotate globali distribuivano ai soci oltre 17 mila miliardi di dollari fra dividendi (12 mila) e buyback (5 mila). I riacquisti sono stati il vero formidabile motore del rialzo decennale delle quotazioni di borsa, che sino alla pandemia pareva inarrestabile nonostante la stagnazione dei profitti aziendali. I vertici delle quotate hanno approfittato dei corsi azionari da record per incassare compensi milionari, esercitando stock option e vendendo i titoli detenuti. Per sostenere remunerazioni tanto generose molte aziende si sono indebitate: il debito societario globale (finanziari esclusi) supera ormai i 75 mila miliardi di dollari, pari al 93% del pil mondiale. Nell’arricchire soci e manager questo piano di sostituzione del capitale di rischio con il debito ha reso le imprese più vulnerabili agli shock. Il fatto che la pandemia sia stato un evento imprevedibile ed esogeno non basta perciò a esimere la finanza dalla responsabilità di averne aggravato le conseguenze. Secondo uno studio del Centre for Research on Accounting and Finance in Context (Crafic), fra 2009 e 2019 le società dello S&P 500 e dell’Eurostoxx 600 hanno distribuito in media rispettivamente l’87% e il 72% degli utili realizzati tramite dividendi e buyback. Nel 2015, anno di picco, la quota di remunerazione ha toccato il 98% in Europa e il 108% a Wall Street. Ciò significa che un gran numero di società si è indebitata per pagare quanto promesso ai soci. Così, calcola il Crafic, nell’ultimo anno il 37% dello S&P 500 ha pagato agli azionisti una somma superiore ai profitti realizzati. La quota scende al 28% per lo S&P 350 Europe, su livelli comunque senza precedenti. Anni di politiche ultra-accomodanti da parte delle banche centrali del resto hanno abbattuto il costo del debito, che peraltro assicura non trascurabili vantaggi fiscali per via della deducibilità degli interessi. La qualità ne ha risentito: il volume di bond con merito BBB, a un passo dalla spazzatura, è quadruplicato a 4.600 miliardi. Le obbligazioni con rating speculativo hanno superato i 2.000 miliardi. Questi soldi non hanno alimentato gli investimenti, anzi: nel 2018 la spesa in ricerca e sviluppo del 43% dello S&P 500 è stata zero. Una porzione dei debiti contratti è invece andata a sostenere la remunerazione dei soci. Un’altra è servita per acquisizioni a leva che hanno incrementato il peso degli attivi intangibili come l’avviamento, cresciuto fra 2014 e 2018 del 45% a Wall Street e del 26% fra le principali quotate europee. Valutati spesso con il metodo dei flussi di cassa attualizzati, questi asset sono utili a gonfiare conti e utili, ma rischiano di rivelarsi esiziali in periodi di crisi. Stando alle stime del Crafic, il 37,5% dello S&P 500 e il 40,7% dell’Eurostoxx 600 hanno a bilancio un avviamento di entità superiore agli utili non distribuiti: una sua svalutazione totale andrebbe quindi a intaccare il capitale. Per il 27,9% dello S&P 500 e per il 15,2% dell’Eurostoxx 600, inoltre, l’azzeramento dell’avviamento spazzerebbe via l’intero patrimonio, determinandone il fallimento.
Chi sostiene che «nessuna impresa dovrà fallire per il Covid», insomma, dimentica dieci anni di eccessi finanziari di società a lungo troppo generose con gli azionisti e oggi impotenti dinanzi alla crisi pandemica. Per salvarle, e con loro economia e posti di lavoro, i governi hanno attinto dalle casse pubbliche 11 mila miliardi, cui si somma il sostegno delle banche centrali. Dire che lo Stato stia restituendo nel momento del bisogno quanto incassato in passato dalle imprese non corrisponde sempre al vero. Ogni anno, calcola il Fondo Monetario Internazionale, l’elusione delle tasse sottrae al gettito globale 650 miliardi di dollari. Spesso i più abili Houdini fiscali sono quelle stesse multinazionali che oggi chiedono ai governi incentivi, sussidi e investimenti.
In attesa di una riforma del sistema fiscale internazionale, comunque, garanzie e prestiti statali aumenteranno la montagna del debito pubblico e di quello societario. Misure obbligate – si dirà – dinanzi a un doppio shock di domanda e offerta capace di abbattere anche le imprese più solide. Se prolungato indiscriminatamente, però, questo sostegno può diventare un freno alla ripresa. Stando a una recente analisi di Bank of America, più di una società su 10 fra quelle incluse nell’Eurostoxx 600 ha un reddito operativo netto (ebit) superiore agli oneri finanziari. In gergo si chiamano «zombie»: compagnie tenute in vita solo dal debito e incapaci di investire in crescita e innovazione. Eppure, complice i costi minimi di indebitamento, alcune di queste società zombie hanno continuato per anni a staccare cedole e probabilmente torneranno a farlo passata la tempesta. Vale la pena di soccorrerle? Se anche si ritiene di rispondere sì a questa domanda, pare equo accompagnare gli aiuti pubblici a condizioni meno blande di quelle sinora imposte dai governi, anche sul fronte della trasparenza fiscale. Lo stop ai dividendi per un anno è un palliativo che non sfrutta l’opportunità offerta dalla crisi pandemica per frenare la finanziarizzazione delle imprese e ricondurle alla loro ragione sociale: produrre e investire sull’innovazione. Non su cedole e buyback. (riproduzione riservata)
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