L’opas di Intesa su Ubi potrebbe superare l’80% segnando la prima tappa del risiko bancario. La prossima partita si aprirà su Monte, per il quale il Tesoro corteggia Banco Bpm e Unicredit
di Luca Gualtieri
Non servirà attendere la chiusura delle contrattazioni di martedì 28 luglio per capire che Intesa Sanpaolo ha ormai piantato la bandierina su Ubi Banca. Nelle ultime sedute le adesioni all’offerta pubblica di acquisto e scambio sono cresciute esponenzialmente e venerdì 24 avevano toccato il 32,7%, suggerendo a qualche osservatore un best-case scenario con sottoscrizioni vicine all’85%. Secondo quanto ricostruito da Reuters, alla fine dell’ultima settimana di borsa agli azionisti retail andrebbe attribuita circa la metà delle adesioni pervenute. Un altro 10% sarebbe invece riconducibile alle due fondazioni, Crc (5,9%) e Banca del Monte di Lombardia (3,95%), che venerdì 17 avevano annunciato l’adesione alla luce del rilancio di Intesa. Molti investitori istituzionali hanno inoltre già dato istruzioni sul conferimento delle proprie quote alle banche agenti, che però attenderanno fino a lunedì sera per eseguire gli ordini, spiegano le fonti. A Intesa, comunque, basterà superare il 66,7% per condurre in porto la fusione, estraendo dal deal tutte le sinergie previste e dando vita a quello che sarà di gran lunga il primo polo bancario italiano. Se insomma l’esito dell’operazione non può lasciare adito a dubbi, nella city milanese ci si chiede già quali saranno le prossime tappe di quel nuovo risiko bancario che l’opas di Intesa ha avviato.
Da qualche anno le condizioni sono mature per una nuova stagione di consolidamento del settore e oggi per molti non c’è più tempo da perdere. Da un lato, in uno scenario caratterizzato da tassi zero e da forte crisi economica, la scala sarà lo strumento più efficace per realizzare sinergie di costo e ricavo. Dall’altro, la concorrenza di fintech e big tech si sta facendo sempre più serrata, come dimostra la crescita di Google Pay e Apple Pay sul mercato europeo. Spazio per il consolidamento sembra esserci soprattutto per le banche medie, dove il livello di frammentazione è superiore alla media europea. E se infatti l’ultima ondata di fusioni, quella del 2006-2007, ha interessato soprattutto gli istituti di grandi dimensioni, oggi banker e investitori si aspettano una semplificazione tra i pesi medi del settore.
Per più di una ragione il prossimo dossier caldo si preannuncia Mps. La scissione della bad bank e l’espulsione dal bilancio di oltre 8 miliardi di crediti deteriorati imprimeranno infatti un’accelerazione all’uscita del Tesoro. Oggi, Via XX Settembre ha il 68% dell’istituto e, secondo indiscrezioni, sarebbe pronta a iniettare nuovo capitale fino a 700 milioni per completare il processo di derisking. Il primo passo sarà la stesura dell’exit plan, il documento che fisserà le prossime tappe, a partire dalle modalità di uscita dello Stato dal capitale. Attesa inizialmente per fine 2019, la presentazione del piano era stata rinviata inizialmente per la complessità del processo di scissione e poi per il sopraggiungere dell’emergenza sanitaria. Oggi però i due ostacoli sembrano smarcati e a Roma i tecnici del Tesoro avrebbero ricominciato a lavorare sul documento che, oltre alle tempistiche e ai relativi passaggi tecnici, dovrà indicare anche i possibili partner. Sebbene l’advisor Mediobanca sia ancora fresco di nomina, qualche indagine è già partita. Nei mesi scorsi, per esempio, Roma avrebbe sondato il livello di interesse di Banco Bpm, registrando però una certa freddezza. Non tanto per l’impegnativo sforzo patrimoniale che un’operazione del genere richiederebbe (i consulenti ritengono che il capitale addizionale necessario superi i 2 miliardi), quanto per le perplessità emerse sui futuri assetti di controllo. Secondo alcune simulazioni. Nella nuova combined entity Banco Bpm-Mps il Tesoro avrebbe ancora il 35-40% del capitale e sarebbe così in grado di condizionare la vita societaria e le scelte strategiche. Un’eventualità certamente non gradita ai numerosi azionisti internazionali di Piazza Meda. Anche se per il momento i vertici della banca sono categorici nell’escludere un deal, non è detto che nei prossimi mesi restino di questo avviso. Di certo l’opas su Ubi ha messo non poca pressione al Banco sul fronte m&a. Non solo perché la zampata della Ca’ de Sass farà uscire Ubi dal valzer delle aggregazioni, ma anche perché con il deal cadrà il tabù sulle offerte non concordate. Sin dal no di Bankitalia alla doppia opa di Unicredit sulla Comit e del San Paolo sulla Banca di Roma, ogni aggregazione nel credito italiano è stata subordinata all’accordo tra target e compratore. Una limitazione che la mossa di Intesa rimuoverà, imprimendo così una forte accelerazione al consolidamento del sistema. Da tempo si mormora di mire francesi su Piazza Meda che, senza un nocciolo duro di azionisti, rischia di trovarsi ancora più disarmata di Ubi. Il ceo Giuseppe Castagna ne è consapevole ma non ha molte carte da giocare. A parte un’operazione di sistema con Mps, il banchiere potrebbe riaprire quel dossier Bper che negli ultimi 15 anni è più volte tornato sulla scrivania dei ceo di Piazza Meda. A Modena del resto (e soprattutto a Bologna, quartier generale del primo socio Unipol) l’acquisto delle oltre 500 filiali Ubi potrebbe non bastare per completare il salto dimensionale. C’è però chi sostiene che a un merger of equal Bper preferirà l’acquisizione di una realtà più piccola, ma culturalmente affine come la Popolare di Sondrio di cui Unipol ha già il 2%. Di certo l’istituto guidato da Mario Pedranzini e ormai prossimo alla trasformazione in spa ha diversi corteggiatori e, oltre a Modena, si mormora possa interessare al Credem. Rimaste a lungo ai margini dello scacchiere le banche private potrebbero del resto rompere gli indugi in questo nuovo giro di consolidamento e giocare un ruolo più attivo.
Probabilmente le maggiori incognite sui futuri equilibri nel credito italiano vengono da Unicredit. In questi ultimi anni il gruppo guidato da Jean Pierre Mustier ha preferito guardare al Nord Europa che all’Italia dove anzi ha alleggerito la propria presenza, cedendo per esempio Fineco. Da qualche mese, però, sembra che azionisti e amministratori stiano riconsiderando la strategia e l’imminente separazione degli asset esteri da quelli nazionali attraverso una subholding che potrebbe favorire un rafforzamento sul mercato italiano. Accarezzata ma poi subito messa da parte l’idea di un blitz su Ubi, oggi Unicredit ha più opzioni aperte ma non c’è dubbio che un’operazione su Mps sarebbe il modo più efficace per contendere di nuovo il primato a Intesa. Tanto più che, con il suo peso specifico, piazza Gae Aulenti sarebbe in grado di diluire il Tesoro fino al 5% evitando così ripercussioni sulla governance. Sarà questa la strada scelta da Mustier? Come sempre il ceo tiene ben coperte le carte anche con i suoi collaboratori ma è credibile che, concluso quasi il secondo mandato, la tentazione di portare finalmente in cda un’aggregazione sia forte. (riproduzione riservata)
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