«Neppure l’avaro di Moliere si accorgerebbe di quanto perdono le pensioni con la nostra rivalutazione all’inflazione tanto modesto è l’importo». Così affermava il premier Giuseppe Conte, più o meno come avevano fatto i suoi predecessori, rendendo a tutti evidente quanto la politica abbia perso il contatto con la realtà e si sia rifugiata nello storytelling; ma le cose non stanno così! Dai calcoli che abbiamo elaborato si evince come le perdite siano altissime: in 13 anni (dal 2006 al 2019) sono pari a mezza annualità di pensione per gli importi fino a 5 volte il trattamento minimo (TM) e addirittura un’intera annualità per quelli da 12 volte il TM. E a perderci, anche nel 2019, sono i pensionati «paganti», cioè quelli che i contributi e le imposte le hanno pagate per tutta la vita e quindi dispongono di pensioni pari o superiori a 4 volte il TM Inps 2019, cioè 2.052 euro lordi al mese: questo perché le loro rendite non sono state adeguate all’inflazione al 100% ma solo ad una percentuale più bassa, in molti anni inferiore addirittura a quella prevista nel lontano 1997, a 5 anni dalla prima riforma targata Amato e a due da quella Dini che rimettevano ordine in un sistema pensionistico devastato da oltre 22 anni di uso sconsiderato delle pensioni.

La regola
Quella norma prevedeva di rivalutare le rendite pensionistiche al 100% fino a 3 volte il TM, al 90% da 3 a 4 volte il TM e al 75% oltre tale importo. A quel tempo aveva una ragione, poiché il calcolo della pensione era totalmente retributivo (basato cioè sulle ultime annualità di lavoro e senza tener conto né di quanto versato né dell’età a cui un lavoratore si pensionava); oggi, a distanza di 22 anni, questa modalità di rivalutazione non è più giustificata, perché il calcolo della quota retributiva è molto più rigorosa e dall’1/1/2012 la rendita è calcolata con il metodo contributivo. Invece, seguendo il «populistico» esempio dei governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, anche il Governo del «cambiamento», soprattutto sulla spinta del M5S, ha mantenuto (peggiorandolo per quelle più alte) il metodo di rivalutazione. Per gli «smemoranda» di sinistra che ultimamente attaccano il Governo su questo punto, si ricorda che dopo le mancate rivalutazioni del periodo 1992/1996, giustificate dalla fase di riforma del sistema pensionistico, tutto inizia con il governo Prodi che nel 1997 azzera la rivalutazione delle pensioni di importo superiore a 5 volte il TM, cioè pensioni nette da 1.430 euro circa, non proprio nababbi; l’azzeramento si protrae fino alla fine della legislatura con i governi D’Alema e Amato. Si ritorna alla normalità nel periodo 2001/2006 (governo Berlusconi), ma già nel 2008 la rivalutazione delle pensioni sopra 8 volte il TM viene azzerata, ancora dal governo Prodi; con il governo Berlusconi e fino al 2011, i pensionati ricevono la loro regolare rivalutazione sulla base della legge 388/2000, poi le cose precipitano con i successivi governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni. In effetti, già dal gennaio 2017 si sarebbe dovuto riapplicare la legge 388, ma sia Renzi sia Gentiloni ne hanno prorogato il ripristino al gennaio 2019 per cui l’Inps, lo scorso anno, ha provveduto a pagare le rendite 2019 secondo la legge 388 ma il governo Conte che non ha resistito alla tentazione di usare il «bancomat» dei pensionati, per l’ennesima volta, ha rivisto in modo peggiorativo rispetto alla 388 la perequazione per le pensioni superiori a 5 volte il TM, rendendo necessario il ricalcolo ex post da parte dell’Inps con relativa richiesta di rimborso a carico dei soliti noti.
Ma veniamo ai numeri delle perdite. Per il periodo 2006-2019, la perdita di denaro che i pensionati con rendite da 8 volte il trattamento minimo in su hanno accumulato fino a oggi (poi evidenzieremo anche le perdite che accumuleranno nei prossimi dieci anni di fruizione della pensione) è di quasi 100 mila euro lordi, in pratica circa un’intera annualità per le pensioni da 19 volte il TM, ma si evidenziano perdite consistenti anche per le fasce più basse.
Consideriamo che una pensione di 8 volte il minimo nel 2006 corrispondeva a 44 mila euro lordi all’anno, ossia circa 2.500 euro netti al mese per 13 mensilità, certamente non persone in difficoltà ma non proprio un’élite.
Gli esempi
Prendiamo un pensionato che dal 2006 riceve 2.000 euro lordi al mese (26.000 all’anno); anzitutto occorre notare che se nel 2005, quando è andato in pensione, il TM era 4,76 volte la sua pensione, oggi è di 4,50, cioè un quarto di trattamento minimo se ne è andato nel tempo (circa 130 euro al mese). Facendo la somma delle varie perdite, dai 16,33 euro persi nel 2006, per salire fino a 73,72 nel 2011 e per via della bassissima perequazione attuata dal governo Monti, schizzate a 700 euro, raddoppiati l’anno dopo, per poi aumentare progressivamente, ma in modo meno drastico, fino ai 1.700 di quest’anno, il nostro pensionato ha perso nel periodo circa dodicimila euro, ossia quasi la metà di un’annualità di pensione; in questa situazione ci sono quasi un milione di pensionati con rendite da 1.600 euro netti al mese.
Chiaramente, più alta è la pensione maggiori sono le perdite. Chi nel 2006 prendeva 3.000 euro lordi (2.100 netti), ha perso nello stesso arco di tempo più del doppio, ossia quasi trentamila euro, cioè ben due terzi di una annualità di pensione; con 4.000 euro lordi al mese (2.800 netti) ha perso poco meno di un intero anno di pensioni: 48.769 euro su 52.000 euro annui. In questo esempio, a differenza dei due precedenti, si vede bene l’effetto della misura del governo Prodi nel 2008: se l’anno precedente la perdita annuale era di meno di 300 euro, con l’azzeramento della rivalutazione è salita fino a più di mille euro annui. Con una pensione di 5.000 euro lordi mensili (3.400 netti) la perdita è ancora al di sotto dell’annualità, anche se molto vicina: 63 mila euro lordi, solo 2.000 in meno del totale di 13 mensilità e nel solo 2019, più di ottomila euro lordi persi rispetto a quanto avrebbero dovuto ricevere.
Più di uno
Infine, i casi di chi ha perso più di un’annualità: chi riceve 8.000 euro lordi di pensione al mese (5.200 netti), ha perso appunto più di un’intera annualità e in soli 13 anni, ha ricevuto ben 105.640 euro lordi in meno di quelli che avrebbe dovuto ricevere, a fronte dei 104.000 euro lordi annui della sua pensione. Chi riceve 21,41 volte il TM, ossia 9.000 euro lordi al mese (5.700 netti), ha perso quasi centoventi mila euro, e con 10.000 euro lordi al mese (6.400 netti), cioè quasi 24 volte il TM, la perdita è stata di 134.000 euro lordi, 4.000 euro in più della propria annualità.
Ma non finisce qui perché se questi pensionati, come ci auguriamo, continueranno a percepire la pensione per altri 10 anni, diretta o di reversibilità, la perdita sopra evidenziata per ciascun importo di pensione, aumenterà vertiginosamente.
Un pensionato con una rendita mensile di 2.307 euro, accumulerà una perdita che considerando gli effetti delle future mancate rivalutazioni sarà più che doppia rispetto al periodo 2006/19; perdite che aumenteranno all’aumentare dell’importo di pensione. Cifre sulle quali la politica dovrebbe riflettere molto, tanto più che dal prossimo anno l’80% dei potenziali pensionati avrà il 60% e più della rendita calcolata con il contributivo e quindi si porrà il problema dell’indicizzazione al 100%, cosa che peraltro si sarebbe dovuta fare anche in questi anni per la quota di pensione contributiva maturata dal primo gennaio del 2012.
O i nuovi ripercorreranno le vecchie piste del bancomat pensionati?

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