Il Freedom of information act avrebbe dovuto rendere possibile l’accesso a dati che possono avere un valore enorme per chi fa profilazione clienti, analisi di mercato, marketing. Ma a distanza di tre anni dall’entrata in vigore del decreto i risultati concreti sono pressoché nulli
di Marino Longoni mlongoni@class.it
Il decreto legislativo sulla trasparenza amministrativa (Foia, Freedom of information act, del 2016) è stato celebrato come una grande conquista dei cittadini, che finalmente potranno avere accesso a tutti (o quasi) i loro dati in possesso della pubblica amministrazione. L’obiettivo era quello di cambiare la filosofia di fondo dell’accesso alle informazioni detenute dalla pubblica amministrazione, consentendo a ciascuno di entrarne in possesso, indipendentemente dal motivo per il quale l’accesso è richiesto, salvo ovviamente una serie di eccezioni che continuano a giustificare la riservatezza di una serie di informazioni, come per esempio quelle rilevanti per la sicurezza pubblica, la difesa nazionale, le relazioni internazionali, la conduzione delle indagini ecc. Avrebbe potuto essere una rivoluzione per le imprese che gestiscono big data o le grandi società di marketing. Il Foia avrebbe dovuto rendere possibile l’accesso a dati che, opportunamente elaborati, possono avere un valore enorme per chi fa profilazione clienti, analisi di mercato, marketing ecc.
Ma i risultati concreti sono stati pressoché nulli.
La possibilità di distribuzione e di utilizzo dei dati in mano pubblica non ha dato i suoi frutti a causa di una complessità (o meglio, confusione) normativa che impedisce a imprese e cittadini di sfruttare le potenzialità delle norme che dovrebbero garantire la trasparenza. Il problema di fondo è che sembra quasi ci sia una guerra non dichiarata tra Garante privacy e Autorità anticorruzione, da una parte, e ministero della funzione pubblica dall’altra. L’interpretazione del Foia, sostenuta dalle due authorities, è estremamente limitativa: di fatto, secondo loro, con le nuove norme non si aggiungerebbe nulla al diritto di accesso già garantito dalle norme precedenti. Una posizione di rigida tutela dei diritti individuali. Al contrario la Funzione pubblica ha sempre cercato, con provvedimenti amministrativi, di ampliare il più possibile gli spazi di trasparenza. Il Foia, come interpretato dal ministero, servirebbe a redistribuire i dati in funzione anche di impulso del mercato, ma la complessità normativa ha finora impedito ogni effetto positivo. In effetti ci si trova di fronte a un caso di opacità per surplus (teorico) di trasparenza. Ci sono almeno dieci possibilità, come si spiega nell’inchiesta pubblicata su questo numero di ItaliaOggi Sette, che consentirebbero l’accesso agli atti in possesso della pubblica amministrazione, ma l’astrattezza e la complessità delle norme sono tali che, per individuare la regola applicabile al caso concreto, è quasi sempre necessario rivolgersi a un giudice, anche perché le pubbliche amministrazioni, di fronte alla richiesta di dati, di solito fanno resistenza. Inoltre i pareri del Garante relativi a procedimenti di accesso Foia, fino a oggi, hanno rilevato quasi sempre possibili lesioni della privacy.
E anche i giudici fanno fatica ad applicare in modo univoco norme così complesse e generiche con il risultato che a confusione si aggiunge confusione. Lo ha riconosciuto anche la Corte costituzionale con la sentenza n. 20/2019 dove si afferma che con questo eccesso di trasparenza il rischio è quello di generare «opacità per confusione».
Così fiorisce un mercato non ufficiale dove si comprano e si vendono (sottobanco) ogni genere di dati personali.
Banche dati delle pratiche di autorizzazione commerciale, di procedimenti in materia di ambiente, analisi del territorio, e così via sono solo esempi di banche dati che possono avere un valore enorme per alcuni operatori di mercato, che avrebbero anche la possibilità di rielaborare e riutilizzare liberamente l’enorme mole di informazioni. Ma, per ora, è tutto fermo.
L’amministrazione pubblica detiene data base che nessun privato può sognarsi di avere, non ci sarebbe niente di male nel renderli disponibili all’utilizzo privato. Ma se è vero che questi dati sono un patrimonio di valore inestimabile per chi li sa utilizzare, perché regalarli invece di farli pagare a chi li richiede? Potrebbe essere un modo per trovare risorse finanziarie che permettono di ridurre la pressione fiscale su imprese e cittadini (che i dati non li utilizzano, ma ai quali i dati in definitiva appartengono). Se i big data sono il petrolio del futuro, perché lasciarlo inutilizzato nelle viscere della pubblica amministrazione invece di estrarlo e renderlo profittevole per tutti, cittadini e imprese?
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Sono almeno 10 le strade per l’accesso agli atti. Ma occorre individuare quella giusta
Trasparenza amministrativa: più che un diritto, una Babele
Pagine a cura di Antonio Ciccia Messina
Trasparenza della pubblica amministrazione, tanta e ben confusa. Sono (almeno) 10 i «tipi» di trasparenza e tutti con presupposti diversi e con possibili esiti differenti: se devo chiedere la copia di un atto o di un documento, o di un dato o di una informazione, può darsi che ne abbia diritto in base a una legge, e che non ne abbia diritto in base ad un’altra.
Diventa importante, allora, capire quale «trasparenza» attivare per ottenere il risultato e formulare la richiesta di conseguenza. Diventa importante capire quali sono i limiti che la legge prevede rispetto a un particolare tipo di trasparenza e passare allora ad un altro tipo. Insomma: una babele.
Dieci porte. Si può chiedere trasparenza alla p.a. in base alle norme sulla privacy (regolamento Ue 2016/679), oppure in base alle norme sulla conoscibilità degli atti e documenti conservati dall’ente pubblico (legge 241/1990, articoli 22 e seguenti), oppure ancora in base alle norme sulle procedure relative ai contratti pubblici (dlgs 50/2016).
Ma c’è anche una forma di trasparenza in base alle norme del codice di procedura penale sulle investigazioni difensive (articolo 391-quater) e una in base alle norme sulla trasparenza in materia di ambiente (dlgs 195/2005).
Il decreto legislativo n. 33/2013 (intitolato, non senza promiscuità linguistica, alla «trasparenza») prevede ben due forme di trasparenza:
– la prima è quella prevista nel caso di omessa pubblicazione di atti per cui la pubblicazione è obbligatoria;
– la seconda è, invece, l’accesso civico generalizzato, noto come «Foia» (acronimo di «freedom of information act»), sulla carta potentissimo e, senza bisogno di motivazione, aperto a chiunque (ma non è proprio così).
La legge n. 241/1990 prevede una forma di trasparenza a favore di chi è interessato, cointeressato, controinteressato, intervenuto nel procedimento amministrativo.
E, infine, per questo non esaustivo elenco, i consiglieri degli enti locali hanno uno speciale regime (articolo 43 del Testo unico enti locali) di atti e informazioni degli enti cui appartengono; ed anche speciale è la normativa della trasparenza sanitaria prevista dalla legge n. 24/2017 (articolo 4).
Sul punto può generalizzarsi quello che la Corte costituzionale ha detto nella sentenza n. 20/2019 e cioè che con tutto questo eccesso di trasparenza il rischio è quello di generare «opacità per confusione».
Le ambiguità del Foia. Il Foia non si sottrae alle ambiguità: puoi avere tutto senza limiti; anzi no, calma, i limiti ci sono eccome. È un rebus.
Così la circolare n. 1/2019 del ministro della funzione pubblica, Giulia Bongiorno, da un lato, sbarra la strada ai regolamenti delle singole pubbliche amministrazioni: non si possono sottrarre atti e documenti dall’accesso civico generalizzato. Quindi sembrano aprirsi autostrade per ottenere dati, documenti e informazioni dalla p.a.
Ma, contemporaneamente questi stessi varchi si restringono. La stessa circolare 1/2019 dice che, nel decidere su una istanza di accesso civico, il singolo ente deve tenere conto delle limitazioni specifiche previste dai regolamenti in materia di accesso ai documenti (legge 241/1990).
Quindi non si può, con regolamento sull’accesso civico, fare un elenco di dati, informazioni e documenti sottratti all’accesso, ma se un c’è un elenco di sottrazioni nel regolamento sull’accesso documentale (quello della legge 241/1990), questo elenco deve essere tenuto in conto, perché non si possono con l’accesso civico superare i limiti dell’accesso documentale.
Indubbiamente si fa fatica a raccapezzarsi, ma così è. Questo è il quadro pieno di ambiguità in cui deve muoversi l’accesso civico generalizzato (articolo 5, comma 2, dlgs 33/2013). Cosicchè l’unica regola è spesso formulata dicendo che bisogna fare valutazioni «caso per caso». Il che è sconfortante per chi si aspetta di avere linee di condotta omogenee.
Le ambiguità non riguardano solo che cosa si può scrivere nei regolamenti amministrativi.
L’incertezza più grande riguarda il bilanciamento del diritto a ottenere dati, informazioni e documenti con il diritto alla privacy.
Quando è che la privacy batte il Foia e, quindi, niente rilascio di dati o documenti? Ma, a monte, l’ambiguità riguarda proprio la possibilità stessa di fare il bilanciamento.
Per fare un bilanciamento bisogna confrontare due interessi. Per fare questo bilanciamento bisogna avere presente quale è l’interesse perseguito da chi chiede un accesso civico generalizzato e confrontarlo con il diritto alla riservatezza delle persone citate negli atti/documenti/informazioni.
Il problema è che la legge dice che per chiedere l’accesso civico non bisogna dichiarare un interesse preciso che giustifica la richiesta. E, allora, come si può fare il bilanciamento, se non si hanno tutti i termini da confrontare? È un rompicapo.
Non a caso, una circolare del 2017, la numero 2, firmata da Marianna Madia, ministro pro tempore della p.a., aveva suggerito, con molta cautela, di chiedere per piacere al richiedente, se lo volesse, di indicare le ragioni della richiesta.
Fermo restando che il richiedente non è tenuto a indicare i motivi della domanda, si legge nella circolare n. 2/2017, l’amministrazione potrebbe chiedere al richiedente di precisare le finalità della domanda, chiarendo che questa informazione è facoltativa e potrebbe essere utilizzata a fini statistici, e/o per precisare ulteriormente l’oggetto della richiesta e/o per adottare una decisione che tenga conto della natura dell’interesse conoscitivo del richiedente.
Insomma il percorso (contorto) è questo:
– la legge dice che il richiedente non è tenuto a indicare il motivo della sua richiesta;
– la legge impone di bilanciare il diritto alla trasparenza con l’eventuale privacy dei soggetti citati nei documenti;
– la privacy può essere battuta da un interesse prevalente alla trasparenza; allora si può tentare di chiedere il favore al richiedente di indicare il motivo della sua richiesta, così da poter fare un confronto e stabilire quale sia l’interesse prevalente; ma se il richiedente non dice quale è il suo interesse il bilanciamento non è facile da farsi. Chiaro e anche inevitabile il disorientamento delle p.a. e di cittadini.
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Porte aperte senza interesse qualificato
Con il Foia accesso libero (o quasi) a dati e documenti posseduti dalla p.a. L’accesso civico generalizzato è stato introdotto dal dlgs 97/2016, che ha integrato il decreto trasparenza (n. 33/2013). Il Foia non è assoluto e incontra limiti negli interessi pubblici o privati indicati dalla legge, primo tra tutti il diritto alla privacy. Sul sito www.foia.gov.it si precisano gli scopi dell’istituto: svolgere un ruolo attivo di controllo sulle attività delle pubbliche amministrazioni, favorire una maggiore trasparenza nel rapporto tra le istituzioni e la società civile, incoraggiare un dibattito pubblico informato su temi di interesse collettivo. Si aggiunge, anche, che l’accesso civico generalizzato differisce dalle altre tipologie di accesso già previste dalla legislazione.
Ad esempio a differenza del diritto di accesso procedimentale o documentale, che in base agli articoli 22 e seguenti della legge n. 241/1990 tutela soltanto il richiedente con un interesse diretto, concreto e attuale, l’accesso civico generalizzato garantisce al cittadino la possibilità di richiedere dati e documenti alle pubbliche amministrazioni senza dover dimostrare di possedere un interesse qualificato.
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