Un nuovo tassello della Cassazione sulla responsabilità per i reati imputati ai clienti
Concorre il professionista anche solo se sospetta la frode
Pagina a cura di Stefano Loconte e Giulia Maria Mentasti
Il commercialista deve rispondere, in concorso con il cliente, del reato di dichiarazione fraudolenta mediante fatture per operazioni inesistenti, ogniqualvolta abbia predisposto e inoltrato la dichiarazione fiscale pur avendo conoscenza, o quantomeno il sospetto, della falsità dei documenti.
È quanto precisato dalla Corte di cassazione, sezione terza penale, che con la sentenza n. 28158 del 27 giugno 2019 è tornata a pronunciarsi sulla questione, tanto dibattuta quanto delicata, della responsabilità penale del professionista per gli illeciti imputati ai propri clienti.
Il fatto. Il consulente contabile e fiscale di una srl era imputato, in concorso con gli amministratori di fatto e di diritto, nonché con il responsabile del settore amministrativo e contabile, per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (art. 2 dlgs 74/2000). Tutti gli imputati venivano condannati sia in primo che in secondo grado.
Ricorrevano, pertanto, in Cassazione; in particolare il professionista, attraverso il proprio difensore, articolava il ricorso in cinque motivi, lamentando l’assenza di prove circa il suo contributo causale nell’illecito commesso da terzi, nonché evidenziando l’insussistenza dell’elemento soggettivo: non si poteva, infatti, ricercare il concorso materiale nel reato nell’ordinaria redazione delle dichiarazioni ritenute mendaci, né, più in generale, nello svolgimento di quelle attività tipiche della professione di commercialista e fisiologicamente connesse al suo incarico, quali la tenuta della contabilità, la partecipazione ad assemblee, la somministrazione di consigli del tutto leciti. Inoltre, nell’affermare la consapevolezza in ordine alle operazioni illecite, non si dovevano trascurare le dimensioni multinazionali della società, avente fatturato milionario, sede e piattaforma in Cina; la provenienza da questo paese della maggior parte dei materiali e dei prodotti finiti; la mancata disponibilità delle fatture da parte del ricorrente, sistemate in un luogo ben diverso dal suo studio professionale; l’assenza di qualunque contatto tra il medesimo e le società emittenti le false fatture.
Quanto all’ulteriore profilo della confisca per equivalente, che era stata disposta su un immobile (per giunta ereditato e in comproprietà con il fratello), si segnalava come, da un lato, l’imputato non avesse mai ricevuto alcunché del profitto del reato contestato; dall’altro, anche i compensi professionali percepiti fossero da considerarsi modesti.
La questione di diritto. La sentenza ha rappresentato un’occasione per riprendere un tema che, alla luce dell’evoluzione dei rapporti tra imprenditore e consulenti (ormai sempre più coinvolti nella gestione delle imprese), è, oltre che interessante, molto attuale.
In ragione della complessità della normativa di settore, negli ultimi anni i professionisti sono chiamati non solo a provvedere alla corretta tenuta della contabilità e all’espletamento dei tipici adempimenti tributari, ma anche a una penetrante ingerenza nelle scelte aziendali.
Ne deriva tuttavia il rischio, per commercialisti e consulenti, di esporsi a responsabilità, anche di natura penale; infatti, seppur i tributari siano reati cosiddetti propri (per cui la norma, cioè, contempla quali autori soggetti «qualificati»), i professionisti potranno essere chiamati a rispondere, a titolo concorsuale, del reato contestato al cliente imprenditore/contribuente ogniqualvolta risultino integrati gli elementi caratterizzanti il concorso di persone di cui all’art. 110 c.p., e dunque qualora abbiano consapevolmente fornito il proprio contributo in termini di esecuzione o quantomeno ideazione dell’illecito.
La giurisprudenza è infatti concorde che il commercialista possa concorrere nel reato di emissione di fatture false (Cass. pen. 28341/2001), nell’indebita compensazione (Cass. pen. 1999/2017; Cass. pen. 24166/2011), così come nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti (Cass. pen. 39873/2013 e Cass. pen. 7384/2018), anche se della frode abbia beneficiato il solo cliente.
Egli sarà dunque coinvolto nel procedimento penal-tributario qualora per esempio abbia inoltrato le dichiarazioni fiscali pur consapevole che contenessero l’indicazione di elementi passivi fittizi; oppure abbia escogitato il modo per evitare l’esborso mediante compensazione con crediti d’imposta inesistenti.
Peraltro, ad avviso dell’orientamento dominante, anche l’attività di (mera) consulenza è suscettibile di integrare un fatto di partecipazione punibile laddove si offra all’esecutore il mezzo, lo strumento attraverso cui perpetrare l’illecito e non versare dunque l’imposta dovuta. Ciò, a fortiori, quando l’apporto è destinato a «soggetti palesemente incapaci di elaborare una frode senza il contributo di un fiscalista esperto» (Cass. pen. 45249/2014); anzi, in questo caso, al commercialista potrà essere contestata anche quella circostanza aggravante a effetto speciale che, introdotta dal dlgs. 158/2015 nell’ambito della riforma dell’impianto punitivo dei reati tributari, prevede all’art. 13-bis dlgs 74/2000 che le pene stabilite per i reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto sono aumentate della metà «se il reato è commesso dal concorrente nell’esercizio dell’attività di consulenza fiscale svolta da parte di un professionista o da un intermediario finanziario o bancario attraverso l’elaborazione o la commercializzazione di modelli di evasione fiscale».
Un ultimo aspetto che merita di essere sottolineato è che il professionista, nell’ipotesi in cui gli sia attribuito il concorso nel reato, può divenire destinatario di provvedimenti ablativi, quali sequestro e confisca; addirittura, in virtù del principio solidaristico che informa la disciplina del concorso di persone nel reato e sul presupposto della corresponsabilità di tutti nella commissione dell’illecito, ciascun concorrente può essere chiamato a rispondere dell’intera entità del profitto accertato, potendosi pure soprassedere, secondo gli interpreti, dall’accertamento circa l’effettivo arricchimento personale derivante dalla commissione del reato.
La decisione della Cassazione. Ciò detto, ritornando alla pronuncia in esame, la Corte di cassazione ha respinto il ricorso del commercialista, confermandone la responsabilità, in concorso con il contribuente, per l’illecito fiscale a questi contestato.
Sotto il profilo materiale, il contributo causale è stato individuato nella predisposizione e nell’inoltro delle dichiarazioni fiscali contenenti l’indicazione di elementi passivi fittizi supportati da fatture false, qualificando tali condotte come di sicura agevolazione materiale. Inoltre, un’ulteriore forma di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso è stata ravvisata nella complessiva attività di supporto per la «sistemazione» documentale di gravi violazioni contabili, funzionale, ad avviso della Corte, a giustificare l’esistenza della merce e la veridicità dei contratti, e rendere così attendibili le mendaci fatture registrate in contabilità e utilizzate per le dichiarazioni.
Per quanto poi riguarda l’elemento soggettivo, la Corte ha chiarito che il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti è compatibile con il dolo eventuale, consistente nell’accettazione del rischio che la presentazione della dichiarazione fosse comprensiva di fatture false e ne potesse pertanto derivare l’evasione delle imposte.
Nella specie, il professionista era consulente della società in questione (nonché di tutte le altre realtà facenti capo alla medesima famiglia per cui svolgeva l’incarico), ne predisponeva i bilanci di esercizio e disponeva di un accesso diretto in remoto al sistema informatico della società per ottenere dei report contabili periodici. Inoltre, secondo i giudici, dal compendio probatorio era emerso come fosse a conoscenza delle irregolarità fiscali della società (quali l’omessa istituzione e tenuta della contabilità di magazzino e l’irregolare tenuta del registro degli inventari), nonché consapevole che, all’esito di controlli effettuati dalla Guardia di finanza per esercizi precedenti, le fatture di alcuni fornitori fossero state già considerate false.
Infine, sul piano della confisca, e in particolare dell’asserito mancato conseguimento di profitti da parte del ricorrente, dirimente per la Corte è stata la considerazione per cui la confisca di valore nei confronti del legale rappresentante di una persona giuridica deve essere disposta per il solo fatto che non sia possibile eseguire quella, diretta, del profitto di reato nei confronti dell’ente, in quanto l’ablazione, per la sua natura sanzionatoria, trova fondamento nella mera realizzazione del fatto di reato in cui si sostanzia la condotta della persona fisica realizzata nell’interesse o a vantaggio dell’ente.
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