di Domenico Comegna
Il ventilato taglio ai trattamenti di importo superiore a 5 mila euro, al fine di recuperare risorse (un miliardo?) da destinare al miglioramento delle pensioni più basse, non regge. Come giustamente ha fatto notare ItaliaOggi qualche giorno fa, i titolari di un assegno superiore ai 5 mila euro netti sono circa 30 mila e le loro pensioni costano circa 4 miliardi. Ma solo il 5% riceve una rendita calcolata con il metodo «retributivo». Pertanto, i risparmi sarebbero al massimo di 200 milioni di euro che, al netto delle mancate imposte, si riducono a poco più di 100 milioni.
Analoga operazione fu censurata nel 2015 dalla Corte costituzionale (sentenza n. 70). In proposito ricordo che, consapevole dell’impossibilità di scaricare sul bilancio statale la spesa necessaria ad applicare la sentenza, il governo Renzi corse ai ripari introducendo una misura ad hoc, battezzata bonus Poletti, che, scontentando tutti, ha prodotto numerose richieste di illegittimità, che si trascino ancora oggi, intasando non poco il lavoro dell’Alta corte.
Pensionamento anticipato. Invece della quota «100» sarebbe meglio ipotizzare un pensionamento anticipato «secco» a 42 anni di contribuzione, indipendentemente dall’età. Come avviene ormai per la maggioranza della Casse professionali che utilizzano il metodo di calcolo reddituale.
D’altro canto prevedere, come fa la normativa in vigore, che nel 2020 per ottenere la pensione anticipata occorre far valere un minimo di 44 anni di contribuzione, suona come una presa in giro. Questo grazie alla scelta della riforma Fornero di agganciare anche la pensione di anzianità agli adeguamenti demografici.
Peraltro, per evitare «abusi» (uscire con l’anzianità e poi rientrare la settimana dopo al lavoro d’accordo con l’azienda), bisognerebbe introdurre il divieto di cumulo del trattamento anticipato con un reddito da lavoro (dipendente o autonomo), sino al raggiungimento dei limiti vigenti per il pensionamento di vecchiaia.
Pensioni minime. Nell’ambito di un riordino e di una razionalizzazione delle misure che integrano il trattamento pensionistico a calcolo, bisognerebbe introdurre anche nel sistema contributivo l’integrazione a un minimo, come nel retributivo, pari all’attuale minimo comprensivo dell’assegno sociale percepibile all’età di vecchiaia con 20 anni di contributi e crescente per ogni anno di contribuzione successivo ai 20 fino ad un massimo di mille euro. Valore annualmente rivalutato secondo il meccanismo stabilito per la c.d. perequazione automatica.
Opzione donna. La facoltà prevista dalla legge n. 243/2004 (famosa «opzione donna») dovrebbe essere estesa a tutte le lavoratrici che maturano i requisiti previsti dalla predetta disposizione, adeguati agli incrementi della speranza di vita, entro il 31 dicembre 2020, ancorché la decorrenza del trattamento pensionistico sia successiva a tale data. Fermi restando il regime delle decorrenze e il sistema di calcolo delle prestazioni applicati al pensionamento di anzianità di cui sopra.
Da un monitoraggio dell’Inps, aggiornato ad aprile 2018, emerge che dall’inizio del 2016 sono state erogate con i requisiti di opzione donna poco meno di 28mila pensioni per un onere complessivo di poco superiore ai 118 milioni. La fotografia scattata dall’Istituto evidenzia anche che dalla sola ultima proroga prevista dalla legge di bilancio 2017 sono emersi 1.035 assegni (per un onere di 5,3 milioni).
Una ripartenza sarebbe insomma subito fattibile, visto anche il costo non proibitivo per le casse dello Stato. Tutto ciò offrirebbe alle donne la possibilità di rientrare in famiglia per dedicarsi soprattutto alla cura e assistenza dei propri anziani.
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