I dati del rapporto annuale Inps fotografano il cambiamento strutturale del comparto
Nei settori tradizionali calo del 14,3% in dieci anni
Pagina a cura di Sabrina Iadarola
Il lavoro del futuro? Meno dipendente, più autonomo e più intraprendente. Solo in alcuni paesi però, come il Regno Unito e la Francia che, stando ai dati Eurostat, hanno registrato nel periodo 2008-2017 un incremento di occupazione tra gli autonomi pari rispettivamente al 24,9% e 17,8%. In controtendenza invece l’Italia, dove i lavoratori autonomi sono diminuiti del 7,9%, pur essendo la quota italiana di autonomi, rispetto alla totalità degli occupati, tra le più alte in Europa: 21,9% a fronte di una media Ue pari al 14,5%. Numeri che trovano conferma nel XVII rapporto Inps, realizzato partendo dai dati amministrativi relativi agli iscritti alle Gestioni previdenziali dei Coltivatori diretti, Mezzadri e Coloni (Cdcm), Artigiani, Commercianti e alla Gestione separata dei parasubordinati (di cui sono considerati i soli collaboratori e professionisti esclusivi). Ora, considerato che i dati Inps hanno un perimetro di definizione del lavoro autonomo differente da Eurostat, nel complesso, per l’anno 2017, gli autonomi, ovvero gli iscritti alle gestioni sopraindicate, sono nel nostro paese circa 5,1 milioni, diminuiti dal 2008 ad oggi di circa 847mila iscritti con una variazione percentuale pari a -14,3%.
La gestione che più di tutte evidenzia un andamento negativo è la Gestione separata: il saldo negativo è di 226 mila posizioni sia in conseguenza del progressivo aumento delle aliquote contributive (attualmente la percentuale per i collaboratori esclusivi è del 33%), sia le riforme del mercato del lavoro che hanno prima ridotto i margini di utilizzo del lavoro a progetto (legge 92/2012) e poi con il Jobs act ricondotto gran parte delle collaborazioni nell’alveo del lavoro subordinato.
A diminuire poi sono soprattutto i giovani autonomi: gli iscritti nella fascia di età «fino a 34» rilevata nella gestione artigiani scendono dal 21% a 12,8% e tra i commercianti dal 21,5% al 15,7%); un dato, sottolinea il rapporto, «che sembra espressione di una generale sofferenza del settore imputabile a politiche commerciali orientate alla grande distribuzione, difficoltà di accesso al credito e diffuso calo dei consumi che ha scoraggiato l’avvio di nuove attività artigianali e commerciali e, conseguentemente, le nuove iscrizioni alle gestioni Inps».
Ma al di là della panoramica numerica, ciò che preme rilevare a proposito di lavoro autonomo è il cambiamento «strutturale» che ha portato a contare meno lavoratori nei settori tradizionali e soprattutto un’esplosione di autonomi nei settori emergenti, dal lavoro su piattaforma alla gig economy (cioè a lavori gestiti attraverso piattaforme digitali, caratterizzate prevalentemente, ma non solo, da lavoro su richiesta e alta flessibilità). La condivisione di beni non utilizzati o comunque poco utilizzati è sempre esistita. Ma la novità è stata fare ad esempio della condivisione un’economia, quella che chiamiamo sharing economy, cioè la monetizzazione di risorse non utilizzate o sottoutilizzate. Se da Roma vado in automobile a vedere una mostra a Padova, posso «vendere» i posti vuoti offrendo dei passaggi a un costo contenuto. A livello imprenditoriale la sharing economy si è sviluppata grazie alle nuove tecnologie che permettono l’incontro tra offerta e domanda su larga scala, rendendolo facile, veloce, tracciato. La piattaforma digitale rende possibile l’incontro e guadagna nell’intermediazione. E il lavoratore non può che essere inquadrato come un autonomo. Si pensi per esempio a BlaBlaCar, che ha trasformato l’antica pratica del passaggio in una piattaforma di carpooling che mette in contatto autisti in viaggio con mezzo proprio e passeggeri alla ricerca di un trasporto privato lungo la medesima tratta e disposti a pagare. Diverso il caso di Uber che si sposta su chiamata. In questo caso si parla di gig economy in senso stretto, dove la parola «Gig» di importazione americana descrive un lavoretto o un incarico temporaneo.
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