Dalle Sezioni unite della Cassazione una lettura meno restrittiva della sentenza Grilli
Per l’assegno va valutato il contributo alla vita familiare
di Dario Ferrara
La Corte di cassazione
L’assegno di divorzio ha una funzione di riequilibrare le condizioni delle parti. Non serve a ricostituire il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma a riconoscere il ruolo del coniuge debole e il contributo fornito alla situazione economica nel momento in cui cessano gli effetti civili del matrimonio. Il giudice deve accertare subito l’eventuale squilibrio creato dal divorzio, tenendo presente che lo scioglimento del vincolo deteriora le condizioni di vita del coniuge meno abbiente. Vanno dunque prodotte in prima battuta le dichiarazioni dei redditi e gli altri documenti fiscali degli ex coniugi. E alla luce di una valutazione comparativa della condizione economico-patrimoniale delle parti bisogna tenere presente gli elementi indicati dall’articolo 5, comma 6, della legge 898/70: l’apporto dal richiedente fornito al ménage familiare, la durata del matrimonio e l’età dell’avente diritto. Lo stabiliscono le Sezioni unite civili con la sentenza 18287/18, pubblicata l’11 luglio, che chiude il contrasto di giurisprudenza aperto dalla sentenza 11504/17 che ha mandato in soffitta il criterio del tenore di vita endoconiugale, introducendo il principio di auto responsabilità degli ex coniugi dopo lo scioglimento del vincolo.
Realizzazione personale
Trova ingresso il primo motivo di ricorso secondo cui il criterio dell’autosufficienza economica è «foriero di gravi ingiustizie sostanziali». L’assegno, precisa il collegio esteso, va sempre riconosciuto se si accerta che chi lo chiede non ha mezzi adeguati né la possibilità di procurarseli. Ma l’inadeguatezza e l’incapacità vanno calate nel contesto sociale del richiedente. Il giudice del merito deve dunque applicare un criterio integrato che tenga conto di come oggi esistano vari modelli familiari. Lo scioglimento del vincolo incide sullo status ma non cancella tutti gli effetti e le conseguenze delle scelte di vita: bisogna quindi tener conto di quanto è durato il matrimonio e valutare se il rapporto ha portato uno squilibrio nella realizzazione personale e professionale al di fuori della famiglia. Il nuovo testo dell’articolo 5 della legge divorzio, si legge in sentenza, consente di formulare un giudizio di adeguatezza sulle legittime aspettative reddituali che conseguono al contributo personale ed economico che ciascuna parte fornisce alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio, individuale e comune. E in fatto di accertamenti fiscali la legge ha potenziato i poteri istruttori che il giudice può esercitare d’ufficio, anche se i diritti in gioco hanno natura prevalentemente disponibile.
Prospettiva futura
Insomma: per valutare se il coniuge debole ha mezzi adeguati non bisogna guardare solo all’insufficienza oggettiva ma anche a ciò che si è contribuito a realizzare in funzione della vita familiare: diversamente l’apporto produrrebbe vantaggi solamente per l’altra parte. E vanno valutate anche le potenzialità future del profilo economico e patrimoniale del coniuge più abbiente. Il tutto in base a un principio solidaristico desumibile dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo. Nel caso di specie la parola al giudice del rinvio.
Pari dignità
La pronuncia del collegio esteso conferma le attese: già prima delle conclusioni del p.g. in udienza, che chiedeva di considerare il tenore di vita del richiedente, dalla Suprema corte arrivavano segnali per un’interpretazione meno restrittiva della sentenza 11504/17. Si tratta in particolare delle ordinanze 28994/17 e 7342/18, entrambe pubblicate dalla sesta sezione civile: la prima ha stabilito che l’assegno va riconosciuto alla ex quando l’età è avanzata e il reddito basso e la seconda ha aperto per prima all’assegno dopo la fine dei matrimoni lunghi. Oggi la Cassazione precisa che per stabilire se l’ex coniuge richiedente ha diritto il giudice del merito deve «adottare un criterio composito» ma sempre «alla luce della valutazione comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali».
Ma il tenore di vita va definitivamente in soffitta
di Francesco Cerisano
È «l’indipendenza o l’autosufficienza economica» dell’ex coniuge il parametro per stabilire l’assegno di divorzio. Con questo principio, poco più di un anno fa, all’improvviso, la prima sezione civile della Cassazione, ribaltò’ la giurisprudenza applicata da 27 anni, ossia da quando le Sezioni unite della Corte, nel 1990, stabilirono che il presupposto per il diritto a ricevere un assegno fosse da rinvenire nella «inadeguatezza dei mezzi del coniuge a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio». Il 10 maggio 2017, infatti, al Palazzaccio si chiudeva la causa di divorzio che vedeva opposto l’ex ministro Vittorio Grilli alla ex moglie Lisa Lowenstein, con un principio di diritto rivoluzionario, che escludeva il tenore di vita dai criteri di cui tenere conto per l’assegno di mantenimento. Un orientamento, questo, confermato in sentenze di merito e dalla stessa Cassazione con successive pronunce, nelle quali è stata puntualizzata, di volta in volta, la cornice nella quale il giudice poteva muoversi.
La Cassazione, con la sentenza di ieri supera definitivamente il parametro del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, ma rileva che con la sentenza Grilli l’assegno è stato «rigidamente» ancorato a «una condizione di mancanza di autonomia economica del tutto svincolata dalla relazione matrimoniale». Questa impostazione, sottolineano i supremi giudici, «omette di considerare che i principi di autodeterminazione e autoresponsabilità hanno orientato non solo la scelta degli ex coniugi di unirsi in matrimonio», ma «hanno determinato il modello di relazione coniugale da realizzare, la definizione dei ruoli, il contributo di ciascun coniuge alla attuazione della rete di diritti e di doveri». Da qui, il principio enunciato per cui, nel diritto all’assegno divorzile, conta il «contributo fornito alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio e all’età dell’avente diritto».
Il caso esaminato dalle sezioni unite riguardava una coppia emiliana, lui imprenditore, lei professionista, sposati dal 1978 e separati consensualmente dal 2007: in primo grado, il tribunale di Reggio Emilia aveva riconosciuto a favore della donna un assegno mensile di 4 mila euro. In appello, invece, i giudici di Bologna avevano negato ogni diritto all’assegno divorzile, applicando l’orientamento della sentenza Grilli, depositata solo due settimane prima, e disponendo l’obbligo per la signora di restituire all’ex marito le quote di assegno percepite dalla sentenza di primo grado. I due si erano sposati molto giovani e venivano da famiglie modeste, era stato ricordato in udienza, e il patrimonio familiare (pari a 7 milioni di euro, diviso a metà con un accordo in sede di separazione, con cui lui aveva tenuto le aziende, mentre lei aveva optato per denaro e beni immobili) era stato tutto costruito durante le nozze. La moglie, inoltre, non aveva sacrificato la sua carriera per la famiglia, continuando a esercitare con successo la sua professione nel corso del matrimonio. Il principio sancito ieri dalla Cassazione, che pone al centro della questione il contributo che l’ex coniuge ha portato nella vita familiare, sarà quindi il fulcro delle prossime decisioni che la Corte dovrà prendere nell’ambito di cause di divorzio tuttora pendenti: una di queste è quella che vede opposti Silvio Berlusconi e l’ex moglie Veronica Lario, la quale, nello scorso gennaio, ha impugnato la sentenza pronunciata a novembre dalla Corte d’appello di Milano che aveva azzerato il maxiassegno riconosciutole in primo grado (1,4 milioni al mese) e disposto la restituzione a Berlusconi di circa 45 milioni di euro, proprio applicando l’orientamento che era stato stabilito dalla sentenza Grilli e oggi rivisto dai giudici della Cassazione.
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