di Adelaide Caravaglios
È in re ipsa il danno derivante dal trattamento illecito dei dati personali del dipendente da parte del datore di lavoro, a meno che quest’ultimo non dimostri che la lesione arrecata sia irrilevante e che abbia adottato tutte le cautele per prevenire la loro conoscibilità e diffusione: lo ha precisato la Cassazione nell’ordinanza 14242/2018.
Intervenuta sul ricorso di un’agenzia dello Stato, condannata in primo grado al risarcimento del danno non patrimoniale sofferto da un suo dipendente a seguito della diffusione di notizie riguardanti la propria sfera personale, la Corte ha avuto modo di chiarire che «i danni cagionati per effetto del trattamento dei dati personali in base all’art. 15 del dlgs 30 giugno 2003, n. 196, sono assoggettati alla disciplina di cui all’art. 2050 cod. civ., con la conseguenza che il danneggiato è tenuto solo a provare il danno e il nesso di causalità con l’attività di trattamento dei dati, mentre spetta al convenuto la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno». Si tratta, quindi, di un danno, sia esso patrimoniale che non patrimoniale, da considerare in re ipsa, salvo il fatto che il danneggiante dimostri che sia un danno irrilevante o bagattellare, ovvero che il danneggiato abbia tratto vantaggio dalla pubblicazione dei dati.
Gli interessi lesi attraverso un trattamento illecito dei dati personali, spiegano ancora i giudici della I sezione civile, «rappresentano diritti-interessi inviolabili del danneggiato», i quali assumono un rilievo talmente evidente da comportare l’inversione dell’onere della prova: il non aver adottato tutte le misure idonee ad evitare una simile dispersione «si rivela in sostanza come una violazione delle regole di correttezza e di liceità le quali sono finalizzate a bilanciare la libertà di chi tratta i dati con la preservazione della sfera del danneggiato». Ovviamente, concludono, spetterà sempre al giudice valutare se il danno debba essere risarcito in quanto lesivo di diritti «la cui violazione non debba e non possa essere tollerata dal danneggiato».
Così argomentando, hanno quindi rigettato il ricorso e condannato l’agenzia al pagamento delle spese processuali.
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