di Renato Giallombardo*
Roma può ancora giocare un ruolo nella finanza. La capitale d’Italia è tra le più affascinanti città del mondo. Ma negli ultimi dieci anni ha vissuto una parabola discendente. Senza più un ruolo, travolta dall’inchiesta su Mafia Capitale, non ha saputo rinnovare un modello che non fosse legato alle sue vocazioni: il patrimonio artistico e culturale, i servizi per la pubblica amministrazione, il commercio. È su questi assi che ancora oggi poggia l’economia della città, che non ha mai giocato alcun ruolo nella finanza. O meglio, il ruolo finanziario di Roma è stato finora confinato all’area pubblica, rectius politica. Se è indiscutibile che i finanziamenti a pioggia alle imprese sono stati decisi nei palazzi romani, nessuno ha mai messo in dubbio che la capitale finanziaria del Paese fosse Milano. Banche, intermediari, fabbriche prodotto sono radicati in quel territorio, ricco di imprenditori e quindi di risorse private, la cui gestione ha seguito driver legati soprattutto allo sviluppo dell’impresa, al rendimento di breve-medio termine e all’investimento in prodotti azionari o obbligazionari con tassi di ritorno a doppia cifra. La finanza privata, a differenza di quella pubblica, è raccolta allo scopo di generare profitti anche a costo di rischiare il capitale. È quindi Milano che ha condizionato il management finanziario degli ultimi 25 anni. In Italia il 70% delle risorse finanziarie si reperiscono ancora tramite le banche. In Francia la percentuale è del 39%, in Germania del 45%. Quanto al mercato dei capitali, l’Italia ha un ruolo insignificante a tutti i livelli. La Borsa di Milano viaggia intorno al 24° posto surclassata dalle migliori piazze europee, americane, mediorientali e del Sudest asiatico, sia per capitalizzazione che per rendimento medio. La capitalizzazione di Piazza Affari è il 23% del pil italiano, inferiore in termini relativi a quella del Botswana. Il direct lending stenta a decollare e le forme alternative di debito e private equity sono una fetta insignificante della raccolta di denaro per lo sviluppo di imprese o infrastrutture. Quanto al venture capital, non è ancora pervenuto. Ma oltre la finanza pubblica e quella privata, esiste una terza via. Una finanza di cui sinora si è sentito parlare poco ma che in termini di raccolta cresce a doppia cifra ogni anno. È la finanza previdenziale, quella per il welfare e la salute. Una finanza integrativa che si pone obiettivi ben diversi da quella tradizionale, pubblica o privata. È la finanza del nostro futuro, raccolta per cluster di interessi e quindi da gestire con strumenti, visioni e professionalità ancora tutte da costruire. Finito il tempo delle speculazioni e delle rendite di posizione da tasso di interesse, la nuova finanza integrativa dovrà confrontarsi con rendimenti di lungo termine medio-bassi ma in grado di mettere al sicuro il capitale. È l’epoca dell’investitore paziente, della selettività, degli investimenti nelle comunità, nelle infrastrutture strategiche anche locali, nei territori. Investimenti che hanno impatto sulle attività di coloro che hanno conferito le risorse, e che conciliano una redditività adeguata con gli obiettivi della comunità che li ha fatti. Le fonti finanziarie saranno gestite per settori di interesse professionale, sociale. Ma dove si raccolgono? E soprattutto dove sono gli enti finanziari che detengono questo ingente e crescente patrimonio? A Roma. In Italia la gran parte degli investitori istituzionali non bancari risiede nella Capitale. Casse di previdenza, fondi pensione, assicurazioni, risparmio postale gestito dalla Cdp. Risorse per più di 1.000 miliardi di euro, la maggior parte residenti nella capitale. Gestire questa enorme massa di fondi richiede una visione di sistema oltre a preparazione e sensibilità specifiche, oggi carenti sia nella capitale finanziaria che in quella politica. La politica pensa (o dovrebbe pensare) a livello sistemico, la finanza studia e architetta gli strumenti per investire. Due ingredienti che vanno fusi in una sola professionalità. Pensare politicamente e avere una visione di sistema è sempre stato antitetico alla finanza privata ma in larga misura anche a quella pubblica. Come dimostrano le ultime 30 leggi di Stabilità con articolo unico e mille commi. Il denaro vive in funzione delle aspettative sociali. E quindi viene condizionato dalle finalità per cui è raccolto. In Italia imprese e imprenditori sono molto indebitati. Le famiglie hanno ancora in mano gran parte della liquidità. Risorse che devono oggi rispondere all’insicurezza nel futuro, non a moltiplicare la rendite. Combattere la paura sociale vuol dire anche avere fiducia nella gestione del proprio denaro. Mettere in sicurezza il futuro vuol dire anche contribuire a rafforzare se stessi e la propria comunità, sistema, ambiente di lavoro. Welfare, sanità, previdenza sono gli obiettivi primari della nuova finanza di sistema. Per questo va studiato un quadro normativo che ne metta in sicurezza la gestione, con percorsi di formazione mirati e nuove regole di gestione finanziaria che puntino sulle nuove professionalità, senza ingessare i processi. Insomma la finanza previdenziale, integrativa, assicurativa, il risparmio postale, i fondi europei sono raccolti per fini specifici e per quelli vanno trattati. È su questo che si giocherà la battaglia finanziaria del futuro. Ed è su questo che Roma potrà giocare un ruolo primario, una sua leadership finanziaria. Su questo terreno non le manca nulla. Le serve solo credere in se stessa! (riproduzione riservata)
*partner, Gianni Origoni Grippo Cappelii & partners
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