di Roberto Sommella
Sarebbe fin troppo facile liquidare con un «da che pulpito» l’ultima copertina dell’Economist sull’Italia, presunto epicentro di una nuova crisi finanziaria, quando lo smottamento spesso è stato provocato proprio dagli inglesi, nel 2007 come nel 2016. Da anni la stampa anglossassone cerca di insufflare sui mercati dubbi sulla sostenibilità del nostro debito o la tenuta del sistema bancario tricolore. Ma il motivo per cui Oltremanica gli italiani vengono spesso considerati l’anello debole di una pur debolissima Unione non è tanto quello di far cadere i governi di Roma, quanto piuttosto mettere le mani sul nostro risparmio, uno degli scrigni più grandi del pianeta.
La Brexit si risolverà infatti in una battaglia fiscale su chi tasserà meno i capitali. E i britannici partono avvantaggiati, visto che non avranno più vincoli europei. È l’unica certezza che emerge dal divorzio del secolo. Con una Commissione paralizzata da 27 partiti-Paesi diversi, il governo Renzi ha quindi una missione cruciale: mettere in sicurezza i soldi degli italiani, che, complici i tassi bassi, gli incerti regolamenti comunitari e le sirene d’Albione, potrebbero prendere altri lidi. È questo il reale significato del pullman made in Italy che rischia di precipitare nel burrone effigiato dall’Economist subito dopo la Mini londinese: se cadono le banche italiane, i soldi prenderanno un’altra destinazione. Inutile dire quale.
Innanzitutto, a chi giova la politica accomodante della Bce? Proprio secondo l’Eurotower, i tassi negativi fanno più male alle formiche italiane che alle cicale del resto dell’Europa. In media, hanno sottolineato gli economisti di Francoforte, i proventi che derivano dagli interessi delle famiglie europee sono scesi del 3,2% nel periodo compreso fra il terzo trimestre del 2008 e il quarto trimestre del 2015, mentre nello stesso periodo gli italiani hanno perso il 5% contro il 3,5% circa della Spagna e il 2,3% della Germania. La Bce nel suo ultimo Bollettino ha poi affondato il coltello nella piaga: dalla fine del 2008 le famiglie italiane hanno visto scendere in media il tasso di guadagno di almeno il doppio rispetto ai tassi sui pagamenti, «con un impatto negativo sui ricavi complessivi netti». Infatti gli interessi sui guadagni sono stati negativi per il 5%, mentre quelli sui pagamenti si sono fermati a un -2%. Perché questo salasso? Per l’istituto di Francoforte la ragione è che gli italiani detengono un largo ammontare di asset fruttiferi (depositi, obbligazioni, titoli di Stato) e sono relativamente meno indebitati rispetto agli altri Paesi dell’Eurozona. Insomma, pagano dazio perché risparmiano di più e spendono di meno. Domanda: e se un giorno, a Brexit avvenuta davvero, le autorità della City decidessero di rendere più attraente dal punto di vista tributario l’industria della gestione del risparmio, cosa accadrebbe? Gli italiani varcherebbero la Manica per riconquistare il rendimento perduto?
Una risposta plausibile l’ha fornita Gianluca Garbi, conversando con Milano Finanza. Il fatto che Borsa Italiana appartenga ancora al London Stock Exchange (la fusione con la borsa di Francoforte va avanti ma potrebbe rallentare per i veti delle autorità tedesche dopo la vittoria del Leave) può ostacolare l’ambizione di Milano ad accrescere il proprio peso come piazza finanziaria, anzi, senza una strategia precisa, può sortire l’effetto opposto; alcuni operatori italiani, secondo il banchiere, potrebbero andar via dal capoluogo lombardo. Questo perché la piazza londinese per mantenere il suo status potrebbe adottare una sorta di dumping normativo che, se non contrastato adeguatamente, potrebbe innescare l’esodo di un certo numero di operatori. «Al mercato dei titoli di Stato possono aderire operatori basati nell’Ue», ha spiegato Garbi, «dei 29 specialisti sul debito pubblico italiano, 14 sono a Londra, così come circa un terzo dei broker sulle azioni di Piazza Affari. Quando Londra uscirà dalla Ue, che cosa faranno questi operatori? Se non stabiliscono una presenza a Milano o comunque nell’Ue, la liquidità del Mts e degli altri mercati italiani ne sarà gravemente danneggiata, con nocumento per gli investitori. Ma che cosa faranno gli operatori? Verranno a Milano o la abbandoneranno?». Se l’analisi di Garbi è giusta, l’Italia dovrà ridiscutere con Downing Street tutti gli aspetti relativi allo scambio di informazioni, che l’appartenenza del Regno Unito alla Ue rendeva non necessari quando Piazza Affari fu comprata dal Lse.
Il terzo decisivo indizio sulla guerra fiscale l’ha annunciato direttamente il cancelliere dello scacchiere. George Osborne vuole portare le tasse alle imprese al 15% per attrarre le realtà aziendali ora incerte sul futuro economico dell’isola. Un contropiede micidiale che trasformerebbe la Gran Bretagna in un gigantesco paradiso fiscale. Secondo il Financial Times, il governo inglese reagirà al rischio recessione post Brexit con una politica fiscale dalle maniche larghissime, per continuare a fare concorrenza al mercato unico europeo. È l’unica opzione che hanno e la stanno mettendo in atto. La Bank of England sta già aprendo maggiormente il credito alle imprese (per ora siamo già a 150 miliardi di sterline di credito agevolato), mentre l’esecutivo, e chi lo guiderà dopo David Cameron, avvierà l’apertura di canali commerciali bilaterali e insisterà sulle grandi opere per non far flettere gli investimenti. Unico obiettivo: mantenere la leadership finanziaria planetaria, con i risparmi degli europei. Gli italiani, che hanno una ricchezza finanziaria pari a 4.117 miliardi, sono i primi indiziati a finire nella tela del ragno londinese, sempre che la chiusura dei sette fondi immobiliari britannici non sia il preludio di un nuovo 2008, evento shock che rimischierebbe tutte le carte e costringerebbe a una nuova copertina tutti coloro che pensano che il problema sia l’Italia. (riproduzione riservata)
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