Da Atlante alla garanzia statale: obiettivo sicurezza
Pagina a cura di Luigi dell’Olio
«Le banche italiane non sono il problema dell’Europa» è la frase ripetuta con maggiore frequenza negli ultimi giorni da esponenti del governo e rappresentanti delle altre istituzioni italiane. «Dalle banche italiane arriverà la prossima crisi per l’Europa», ha sentenziato invece l’Economist.
In mezzo, una serie di report da parte del Fondo monetario internazionale e di diversi analisti finanziari con allarmi più o meno accentuati sulla situazione del credito della penisola. Ma qual è il reale stato di salute delle nostre banche e cosa possiamo attenderci per il prossimo futuro, non solo in termini di performance borsistiche, ma anche di ricadute sull’economia reale (a cominciare dai prestiti a famiglie e imprese)?
Il peso negli Npl. Il problema principale è dato dal peso dei crediti deteriorati, arrivati a circa 360 miliardi di euro, vale a dire il 17% del totale. Nella maggior parte dei casi si tratta di somme prestate tra il 2006 e il 2009, che non vengono restituite perché chi li ha ricevute è stato travolto dalla crisi.
Nessun altro paese europeo ha una tale incidenza di non performing loans e questo ha creato una grande sfiducia degli investitori. C’è il timore che le banche italiane non abbiano capitale a sufficienza per sostenere la grande quantità di crediti deteriorati che detengono, e che a causa dei tassi d’interesse bassissimi e alle inefficienze interne, non siano in grado di generarne altro.
Il peso di Brexit. Il problema degli Npl non nasce oggi, ma si aggrava ogni giorno di più perché nel tempo si sono aggiunti altri problemi, dal rallentamento della ripresa rispetto alle previsioni fino all’esito del referendum britannico, che ha decretato l’uscita dall’Unione europea, una decisione destinata a pesare sulla crescita economica tanto del paese, quanto dell’intero Vecchio continente.
Peraltro, ha cominciato a farsi strada il timore che la Brexit possa spingere altri stati membri a decretare l’uscita dall’ambito comunitario fino a portare al collasso dell’euro. Una prospettiva simile esporrebbe l’Italia, l’anello debole della catena per il suo elevato debito pubblico, ai venti della speculazione. E le banche, che sono piene di titoli di stato nazionali, pagherebbero dazio più di altri. Basti pensare che alla fine del primo trimestre di quest’anno il controvalore di Bot, Btp, Ctz e Cct in portafoglio agli istituti ammontava a 403 miliardi di euro (cioè oltre un quinto del totale in circolazione). Se una banca media o grande fallisse, vi potrebbero essere implicazioni anche sul debito pubblico in quanto il rischio di mercato del sistema paese aumenterebbe e, con esso, il tasso di interesse dei titoli di stato. Insomma un circolo vizioso che si alimenterebbe continuamente, con la difficoltà di identificare un punto finale di questa crisi.
Gli strumenti messi in campo. Di positivo c’è che si è smesso di ignorare il problema («Le nostre banche sono solide perché hanno pochi derivati in pancia», si diceva tra il 2009 e il 2013) e sono stati messi degli strumenti in campo. Ad aprile ha preso vita Atlante, fondo ideato per affrontare le due principali emergenze in campo bancario. Sul primo fronte, vale a dire la ricapitalizzazione di Veneto Banca e Popolare di Vicenza, il risultato di metterle in sicurezza è stato raggiunto. Tuttavia questo ha comportato l’impiego di buona parte delle risorse inizialmente disponibili (2,6 dei 4,2 miliardi totali). Così ora resta poco denaro in cassa per affrontare il moloch dei non performing loans. Di certo, Atlante non potrà da solo farsi carico di una parte consistente di crediti deteriorati, ma sembra certo che a breve acquisterà un pacchetto importante di questi crediti con l’obiettivo di indicare un prezzo (cioè la valorizzazione rispetto al valore nominale iscritto a bilancio) che possa servire da benchmark per le future operazioni.
Intanto l’Italia ha ottenuto il via libera dall’Ue per la creazione della garanzia statale (a tempo, vale a dire fino alle fine di quest’anno) sul sistema bancario nazionale fino a un massimo di 150 miliardi di euro. Un’iniziativa che mette il governo in condizioni di intervenire in caso di scenari avversi.
Nuovi esami in vista. Al di là delle iniziative istituzionali, il futuro delle nostre banche dipenderà da come saranno capaci di muoversi in proprio. A breve saranno diffusi gli esiti della nuova tornata dello Srep, acronimo di Supervisory review and evaluation process, il processo di revisione e valutazione prudenziale da parte della Bce. A quel punto si capirà se ci sono istituti che necessitano di nuovi interventi sul fronte della patrimonializzazione.
Per le banche popolari chiamate dalla riforma Renzi-Padoan alla conversione obbligatoria in Spa, intanto, il tempo stringe.
La scadenza è fissata per fine anno e finora solo sei assemblee su dieci hanno deliberato in questa direzione. Un passaggio che verosimilmente aprirà a una nuova stagione di fusioni e acquisizioni nel settore con l’obiettivo di creare realtà con spalle più robuste, capaci di resistere sia ai numerosi fattori di incertezza che caratterizzano il mercato, sia a eventuali offerte di player esteri, che potrebbero approfittare degli attuali prezzi stracciati per acquisire banche con un consolidato legame con i rispettivi territori.
Per tutti gli istituti, poi, si impone l’imperativo di tornare all’equilibrio dei conti in un’era non certo facile tra crescita lenta e tassi di interesse ai minimi. Considerato che non sembrano esservi grandi spazi per aumentare i ricavi, non resta che agire sul fronte dei costi. Ma non sarà facile, considerato quello che comporta in termini di filiali e lavoratori.
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