In questi giorni si è tenuta la consultazione della Consob sul nuovo regolamento per l’equity crowdfunding e inevitabilmente è tempo di bilanci. Il mercato ha mosso poco, circa 2,3 milioni di euro, tuttavia il trend è in forte crescita, poiché il volume è raddoppiato nell’ultimo trimestre. Qualcuno, però, parla di flop e di responsabilità, con qualche accusa rivolta sottovoce alle piattaforme di crowdfunding.
Per orientare una rilettura costruttiva del sistema, è utile sottilineare i principali problemi di questo mercato in Italia.
Innanzitutto c’è stato un macroscopico errore di comunicazione che ha creato aspettative errate e stravolto le logiche di dealflow: l’equity crowdfunding non è uno strumento per finanziare idee; serve a capitalizzare aziende, realtà economiche avviate, proprietarie di asset ancorché immateriali, con una chiara roadmap verso il successo. Nemmeno un investitore professionale, con un elevatissimo profilo di rischio, potrebbe prendere in considerazione progetti privi di questi requisiti e basati su mere idee. L’investimento in capitale di rischio early stage deve puntare a obiettivi raggiungibili con la consapevolezza di una futura inevitabile diluizione per la necessità di ulteriori round di capitalizzazione.
C’è poi un problema congiunturale: la scelta legislativa iniziale di puntare sulle start-up innovative, che sono quelle con maggior impatto potenziale sulla crescita del Paese. Tuttavia queste sono le aziende più difficili da capire e valutare e sulle quali l’asimmetria informativa è più evidente. Recentemente l’Investment compact ha fornito un’ottima soluzione estendendo lo strumento del crowdfunding a tutte le pmi innovative, cioè a società che, pur nella verticale dell’innovazione, hanno una storia sulla quale effettuare delle valutazioni concrete e non cabalistiche. Tra le candidate più idonee a un finanziamento crowd ci sono proprio le imprese che svolgono attività commerciali tradizionali, su base locale, a forte coinvolgimento popolare (es. ristoranti, entertainment) e per le quali un’ampia partecipazione pubblica implicherebbe un forte controllo sociale, con importanti ricadute sul piano qualitativo e fiscale.
Il problema principale, tuttavia, sta nel sistema troppo ingessato posto in essere dal Regolamento n. 18592 della Consob e, soprattutto, nella necessità di profilazione Mifid per gli investimenti superiori a 500 euro, che ha comportato una catena di disfunzioni: la necessità per le piattaforme di reperire un partner bancario, la scarsa informatizzazione della finanza retail, la complessità di un processo che scoraggia, più che informare. Si tratta di problemi fatali in un Paese come l’Italia, che ha una scarsissima propensione per l’investimento in capitale di rischio e preferisce i mattoni. Non c’è da stupirsi se le aziende più interessanti si rivolgono, sfiduciate, altrove. Invero, la normativa nazionale nasce da un errato posizionamento: si è pensato all’equity crowdfunding come a una variante del crowdfunding reward-based, immaginando una massiccia presenza di investitori retail impegnati con piccole somme, in un classico modello a coda lunga. Invece, soprattutto in Italia, si tratta di uno strumento per investitori sofisticati, se non proprio per angel investor: mentre la media di investimento pro capite di CrowdCube, il leader di mercato europeo, è di circa 3.500 euro, la media italiana è di 10.250 euro.
Questi problemi hanno creato iniziale sfiducia da parte delle aziende, deal flow modesti, difficoltà operative, con la conseguenza che di 14 piattaforme autorizzate da Consob ne sono partite solo sette, con pochi deal ciascuno. Però hanno fatto un gran lavoro nella selezione dei progetti, tanto che la media di quelli finanziati con successo è attualmente del 40%, circa quattro volte quella americana. Con l’apertura del mercato verranno anche ulteriori investimenti in processi, community, usabilità.
*presidente Associazione Italiana Equity Crowdfunding e partner CrowdAdvisors