Ne consegue che, ove in un contratto di assicurazione contro i rischi di malattia, sia previsto il pagamento di un indennizzo nel caso di invalidità permanente conseguente a malattia, alcun indennizzo è dovuto nel caso in cui la malattia patita dall’assicurato, senza mai pervenire a guarigione clinica, abbia esito letale.
Il contratto di assicurazione contro le malattie. L’assicuratore, in forza di tale contratto, si era obbligato al pagamento in favore dell’assicurato d’un indennizzo nel caso in cui la malattia avesse causato una “invalidità permanente”.
Quest’ultima era contrattualmente definita come la “perdita o diminuzione, definitiva e irrimediabile, della capacità dell’esercizio della propria professione (…) e di ogni altro lavoro (…), conseguente a malattia”.
Secondo la Corte d’appello, la suddetta “perdita o diminuzione” non potrebbe che concepirsi una volta esaurita la fase acuta della malattia.
Un contratto è un testo giuridico. Le espressioni in esso contenute, se potenzialmente ambivalenti, vanno interpretate secondo il senso che è loro proprio nel contesto giuridico, non certo secondo il buon senso o il linguaggio comune.
Il lemma “invalidità” è un lemma tecnico. Esso è frutto di una elaborazione ormai quasi secolare in ambito medico legale; essa designa uno stato menomativo che può essere transeunte (invalidità temporanea) o permanente (invalidità permanente).
L’espressione “invalidità temporanea” designa lo stato menomativo causato da una malattia, durante il decorso di questa.
L’espressione “invalidità permanente” designa lo stato menomativo che residua dopo la cessazione d’una malattia.
L’esistenza d’una malattia in atto e l’esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinchè durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non v’è ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l’ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea.
I principi appena esposti sono stati mutuati dal legislatore in numerosissime norme. Per tutte, basterà ricordare:
(a) il D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 137, comma 1, (codice delle assicurazioni), il quale distinguendo il danno patrimoniale da inabilità temporanea rispetto a quello da invalidità permanente, implicitamente conferma che quest’ultima presuppone l’avvenuta guarigione, con postumi, della vittima;
(b) il D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 138, comma 2, cit., il quale distingue anch’esso il danno non patrimoniale temporaneo da quello permanente (definito “invalidità permanente”), in tal modo dimostrando che l’invalidità permanente non può cominciare a computarsi sinchè duri l’invalidità temporanea;
(c) le infinite norme assicurative e previdenziali che, stabilendo la misura della invalidità permanente oltre la quale è dovuto il trattamento indennitario (due terzi, quattro quinti, eco), lasciano anch’esse intendere che in tanto è concepibile e misurabile una “invalidità permanente”, in quanto la malattia che l’ha causata sia cessata ed i postumi si siano stabilizzati: sarebbe infatti concepibile misurare i “due terzi” d’una validità instabile ed in divenire (cfr., ex permultis, l’art. 302, comma 2, cod. ass., in tema di danni indennizzabili dal fondo di garanzia vittime della caccia;
(d) la L. 20 ottobre 1990, n. 302, art. 1, comma 1, in tema di provvidenze alle vittime del terrorismo.
Infatti, chiamata a stabilire se spettasse o meno il risarcimento del danno biologico da invalidità permanente in un caso in cui le lesioni patite dalla vittima avevano causato la morte di questa a distanza di tempo dall’infortunio, la Corte di cassazione ha già stabilito che se la morte della vittima è stata causata dalle lesioni, l’unico danno biologico risarcibile è quello correlato dall’inabilità temporanea, in quanto per definizione non è in questo caso concepibile un danno biologico da invalidità permanente.
Infatti, secondo i principi medico-legali, a qualsiasi lesione dell’integrità psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può conseguire talora un’invalidità permanente; per l’esattezza l’invalidità permanente si considera insorta allorchè, dopo che la malattia ha compiuto il suo decorso, l’individuo non sia riuscito a riacquistare la sua completa validità.
Il consolidarsi di postumi permanenti può quindi mancare in due casi: o quando, cessata la malattia, questa risulti guarita senza reliquati; ovvero quando la malattia si risolva con esito letale. La nozione medicolegale di invalidità permanente presuppone, dunque, che la malattia sia cessata, e che l’organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma stabile; si intende, pertanto, come nell’ipotesi di morte causata dalla lesione, non sia configurabile alcuna invalidità permanente in senso medicolegale: la malattia, infatti, non si risolve con esiti permanenti, ma determina la morte dell’individuo.
Cassazione civile sez. III, 17/03/2015 n. 5197