di Marino Longoni
Internet, i social network in particolare, sono visti dalla maggior parte delle persone come spazi di libertà, luoghi dove si può dire ed essere ciò che si vuole. La rete, per sua natura, tende ad accogliere l’individuo in una sorta di realtà virtuale, lontana dai problemi, dai dolori e dalle responsabilità della vita reale. Una second life dove i sogni si affrancano dalla vita di tutti i giorni. Ma è un’illusione. Pericolosa. Lo dimostra il fatto che il numero e la gravità dei reati commessi in rete è in continuo aumento, anche se due terzi delle persone che subiscono un attacco in un primo momento neanche se ne accorgono.
L’anonimato, la gratuità, il superamento delle barriere spaziali, portano molti a pensare: su Internet faccio quello che voglio. Non è così: la giurisprudenza, che solo pochi anni fa vedeva la rete come fenomeno difficile da capire, ha elaborato, e sta cominciando a definire e ad applicare in modo sempre più convinto, una serie di reati legati proprio all’abuso degli strumenti informatici. Sono stati così identificati nei profili giuridici i reati di molestie via Facebook, di atti persecutori a mezzo social, di diffamazione sulla bacheca virtuale, di falso profilo, di pedopornografia, di ciberstalking, di gogna digitale e così via. E non si è mossa solo la giustizia penale. Anche i giudici civili hanno ormai precisato percorsi tipici in grado di perseguire le condotte illecite attuate in rete. L’illusione che basti un nickname per garantirsi l’anonimato è dura a morire, ma non ha fondamento. Chi entra in rete è sempre rintracciabile. Il Far West è finito. Di fatto, chi ha la forza di rivolgersi alla giustizia riesce oggi a trovare qualche risposta concreta. Gli stupefacenti progressi delle tecnologie informatiche tendono ad abbagliare, invitano ad abbandonare il senso critico e i freni inibitori. Internet ha un’aureola da Paese dei Balocchi dove tutto è facile, e il soddisfacimento immediato. Non tutti si rendono conto che spesso l’informazione gratuita spacciata in rete non è altro che pubblicità camuffata. Oppure che le interazioni tra gli utenti dei social network, in apparenza del tutto spontanee, possono essere manipolate dagli uffici stampa delle aziende al fine di presentare nel miglior modo possibile i propri prodotti e nel peggiore possibile quelli dei concorrenti. Anche dietro il dibattito politico che si sviluppa sui siti o sui social si celano talvolta istituti specializzati nel pilotare le ondate emotive, con l’obiettivo di massimizzare il consenso per i committenti. Una delle attività più redditizie è raccogliere (o rubare) i dati personali per poi ordinarli e rivenderli a caro prezzo come liste di utenti profilati. Truffe, raggiri, menzogne, falsificazioni sono online 24 ore su 24. Lo schermo del computer o dello smartphone può creare dipendenza da una realtà consolatoria ma irreale, affievolire il senso critico, disabituare all’uso della memoria, perché tanto c’è la rete che ricorda tutto. Al di là dei reati che, magari in modo non del tutto consapevole, si possono commettere o subire, questo è il punto più delicato. Lo sottolinea anche il Papa nell’ultima enciclica, Laudato Si, dove denuncia «la mera accumulazione di dati che finisce per saturare e confondere in una specie di inquinamento mentale». Che prima o poi presenterà il conto. (riproduzione riservata)