di Valeria Francardi
Uomo, 51 anni, residente al Nord, con un livello di istruzione superiore e un lavoro da dipendente. Ecco l’identikit del tipico investitore italiano: un capofamiglia con alta avversione al rischio e che si affida malvolentieri alla consulenza specializzata. A scattare questa fotografia è un rapporto Consob sulle scelte di investimento delle famiglie italiane.
Il primo dato che salta all’occhio è che solo un nucleo familiare su tre riesce a risparmiare, mentre per il 45% degli intervistati il reddito disponibile è appena sufficiente a coprire le spese. La buona notizia invece è che nel 2014 il 48% delle famiglie ha investito nei mercati finanziari: il 7% in più rispetto al 2013, anche se siamo ancora lontani dai livelli del 2007 (55%). A beneficiarne sono soprattutto i prodotti del risparmio gestito, considerati più sicuri, mentre resta contenuto il peso delle azioni, soprattutto quelle italiane, che per il 19% degli intervistati sono lo strumento più rischioso.
Nonostante questi numeri, secondo il presidente Consob Giuseppe Vegas – intervistato da Class Cnbc – «il rapporto conferma la voglia degli italiani di tornare a risparmiare e mette in evidenza un elemento importante: gli investimenti si stanno spostando dai titoli di Stato al mercato immobiliare, che contiene titoli opachi e con rischi maggiori». Da qui la scelta di Consob, il 1° luglio scorso, di diffondere un invito agli intermediari a non vendere strumenti derivati e strutturati alla clientela retail. «Quel che è certo è che il risparmio gestito sta accompagnando l’evoluzione delle scelte di investimento degli italiani», sottolinea Fabio Galli (Assogestioni), «e il passaggio da un portafoglio molto concentrato su titoli di Stato a uno molto più diversificato richiederà tempo».
Dal report emergono divari importanti. Come la differenza tra i generi, che penalizza le donne, meno preparate e coinvolte sui mercati finanziari rispetto agli uomini. O come la scarsa conoscenza delle nozioni economiche di base: il 30% di chi si considera mediamente informato non è in grado di definire correttamente il concetto di inflazione, il 44% non sa calcolare il rendimento atteso di un investimento, mentre il 32% non conosce il significato di diversificazione di portafoglio. In generale, il 18% del campione analizzato non ha dimestichezza con alcuno strumento finanziario, solo l’11% dichiara di sapere cos’è un derivato e meno del 5% ne conosce la rischiosità. Inoltre ci si fida poco della consulenza degli specialisti, alla quale nel 44% dei casi si preferisce il parere di amici e parenti. Solo il 22% infatti si affida a un esperto, mentre il 15% decide in totale autonomia.
In particolare, è la consulenza Mifid a rimanere al palo: alla fine del 2014 vi si rivolgeva solo il 9% delle famiglie. «I dati», chiarisce David Sabatini, responsabile Ufficio Finanza dell’Abi, «non devono essere letti come un atteggiamento di sfiducia da parte del risparmiatore. Il punto è che la consulenza è in una fase di evoluzione e il prossimo passo, con la Mifid2, sarà verso la consulenza indipendente. L’educazione finanziaria però è il maggior strumento di autotutela». Di diverso avviso è Paolo Martinello di Altroconsumo: «L’educazione finanziaria è importante ma non può essere un alibi per abbassare i livelli di protezione. Bisogna aiutare il consumatore a comprendere meglio gli strumenti finanziari e a guardare il mercato in modo semplice. Finora su questo punto sono stati fatti pochissimi passi avanti e il risultato è che non si investe abbastanza». (riproduzione riservata)