La regola generale secondo cui chi invoca in giudizio il risarcimento del danno ha l’onere di provare la colpa del responsabile è in molti casi attenuata o esclusa dal legislatore, allo scopo di assicurare – per ragioni di politica legislativa – maggior tutela alla vittima dell’illecito o al partner contrattuale di un contraente inadempiente.
L’attenuazione del generale onere della prova può tuttavia avvenire con due gradi diversi di intensità, cui corrispondono inversamente altrettanti livelli crescenti del contenuto della prova liberatoria gravante sul responsabile.
In taluni casi, la legge solleva il danneggiato dall’onere di provare la colpa del responsabile (presunzione di colpa).
È l’ipotesi di cui all’art. 1218 c.c., a norma del quale il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
La causa non imputabile è un dato meramente negativo, consistente nell’assenza di colpa: ciò vuoi dire che il debitore, quando sia gravato da una presunzione di colpa siffatta, se ne può liberare semplicemente dimostrando di non essere stato negligente, ovvero di avere adottato le cautele che la legge, il contratto o la comune prudenza di cui all’art. 1176 c.c. rendevano da lui esigibili.
In altri casi la legge, fermo restando l’esonero del danneggiato dal dovere provare la colpa del responsabile, addossa a quest’ultimo un onere probatorio più rigoroso, consistente nel dovere provare il fatto positivo, estraneo alla sua sfera di azione, che ha costituito la causa esclusiva del danno (presunzione di responsabilità).
Ricorrendo tale ipotesi, al convenuto nel giudizio di danno per andare esente da responsabilità non basterà dimostrare di avere tenuto una condotta diligente, ma sarà necessario dimostrare che il danno è dovuto ad una causa oggettiva a lui estranea.
La responsabilità del proprietario dell’animale per i danni da questo causati è da tempo inquadrata sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina pressoché unanime, tra le ipotesi di responsabilità presunta, non tra quelle di colpa presunta.
Secondo questo orientamento, la presunzione di responsabilità per danno causato da animali può essere superata esclusivamente qualora il proprietario o colui che si serve dell’animale provi il caso fortuito, inteso quale fattore concreto del tutto estraneo alla sua condotta.
Da ciò si è tratta la conseguenza che non può attribuirsi efficacia liberatoria alla semplice prova dell’uso della normale diligenza nella custodia dell’animale stesso o della mansuetudine di questo, essendo, e che è irrilevante che il danno sia stato causato da impulsi interni imprevedibili o inevitabili della bestia.
L’animale, infatti, sensu caret: e l’imprevedibilità dei suoi comportamenti non può per ciò costituire un caso fortuito, costituendo anzi una caratteristica ontologica di ogni essere privo di raziocinio.
La responsabilità dell’esercente attività pericolosa (art. 2050 c.c.) ha dato invece luogo a maggiori discussioni in dottrina, e ad una significativa evoluzione della giurisprudenza.
Secondo l’orientamento più antico, l’art. 2050 c.c. prevedrebbe una mera presunzione di colpa, con la conseguenza che l’esercente l’attività pericolosa si libera da responsabilità fornendo la prova di avere tenuto una condotta diligente, e non è necessario che fornisca anche la prova del caso fortuito. Più di recente tuttavia, si è affermato che la responsabilità di cui all’art. 2050 c.c. ha natura oggettiva: essa pertanto sussiste sulla base del solo nesso di causalità, a prescindere da qualsiasi rimprovero in termini di colpa che possa essere mosso all’esercente l’attività stessa.
Pertanto all’esercente l’attività pericolosa non basta, per evitare la condanna, la prova negativa di non aver commesso alcuna violazione delle norme di legge o di comune prudenza, ma occorre quella positiva di aver impiegato ogni cura o misura atta ad impedire l’evento dannoso, di guisa che anche il fatto del danneggiato o del terzo può produrre effetti liberatori solo se per la sua incidenza e rilevanza sia tale da escludere in modo certo il nesso causale tra l’attività pericolosa e l’evento, e non già quando costituisca elemento concorrente nella produzione del danno, inserendosi in una situazione di pericolo che ne abbia reso possibile l’insorgenza a causa delle inidoneità delle misure preventive adottate.
Cassazione civile sez. III, sentenza del 09/04/2015 n. 7093