di Anna Messia

Un’industria che ha concluso la traversata nel deserto. Così Domenico Siniscalco, presidente di Assogestioni e vicepresidente di Morgan Stanley, oltre che ex ministro dell’Economia, commenta la crescita esplosiva della raccolta dei fondi comuni negli ultimi mesi dopo anni di deflussi monstre: 38 miliardi dall’inizio dell’anno, con un patrimonio che ha superato 1.200 miliardi.

Un vero rally, come non si vedeva da tempo. Ora, però, serve partire con la fase due e il risparmio gestito deve contribuire a sostenere e rilanciare il sistema economico. «E i gestori», sprona Siniscalco, «devono fare il primo passo, senza aspettare i tempi della politica». Nel sostengo alle piccole e medie imprese tramite l’investimento in bond e minibond, per esempio, ma anche puntando sugli investimenti a medio e lungo termine, benché gli incentivi fiscali tardino ad arrivare.

Domanda. Professor Siniscalco, nelle scorse settimane si sono riuniti tavoli di discussione per favorire gli investimenti in Pmi. A che punto siamo?

Risposta. A buon punto e mi auguro si possa partire subito. Del resto ci sono già imprese che hanno emesso i primi minibond e anche le banche stanno avviando i cantieri. Non c’è bisogno di chiedere interventi legislativi o fiscali. L’importante è allineare il nostro interesse a quello generale. Solo in questo modo l’industria del gestito potrà offrire più risorse all’intero sistema economico. Non solo nel caso dei minibond, ma anche, per esempio, per i prodotti di risparmio a lungo termine, su cui è intervenuto il decreto Milleproroghe del 2011 incentivandoli fiscalmente, ma che aspettano ancora i decreti attuativi. Intanto bisognerebbe lanciarli perché a questo punto il futuro del gestito dipende non solo dall’efficacia dei gestori, ma anche dal sostegno che l’industria riuscirà a dare all’economia nazionale.

D. Partiamo dai minibond. Quali sono i rischi per i risparmiatori? Si tratta pur sempre di strumenti emessi da piccole aziende e quindi poco liquidi.

R. Le regole sui fondi Ucits fissano un limite del 10% del portafoglio per gli strumenti non quotati. È questa la protezione più importante per i risparmiatori perché questi strumenti meno liquidi, ma che in cambio dovrebbero offrire rendimenti più elevati, vengono diluiti all’interno del fondo che garantisce diversificazione.

D. Per quanto riguarda invece gli investimenti di lungo termine che senso ha avviarli se non ci sono ancora le regole attuative?

R. Stiamo parlando dei piani individuali di risparmio. Se i gestori non fanno il primo passo non succede niente. L’Agenzia delle Entrate, presa da mille questioni, non si deciderà mai a dettare le regole di prodotti che non esistono ancora. Conviene dunque partire per primi perché si tratta di strumenti che possono avere un ruolo fondamentale per il sostegno al sistema e sono vantaggiosi anche per il risparmiatore che tiene fermi i suoi denari per almeno cinque anni. Per di più si tratta di strumenti flessibili, che consentono di smobilizzare l’investimento prima dei cinque anni, anche se perdendo i vantaggi fiscali.

D. Tornando ai dati di raccolta giugno è stato ancora positivo (+2,5 miliardi) ma comunque in frenata rispetto a maggio (8,8 miliardi). Le banche hanno ripreso a vendere bond e a trascurare i fondi?

R. Non ho segnali in questo senso ma è indubbio che il boom di raccolta degli ultimi mesi sia la conseguenza della tanta liquidità immessa nel sistema finanziario e l’industria del gestito deve abituarsi a fluttuazioni della propria crescita. Del resto la competizione è salutare e abbiamo bisogno di un sistema finanziario composto da diversi canali di raccolta.

D. Ma i gestori in questi mesi sono riusciti a rafforzarsi approfittando della fase boom consapevoli che non durerà per sempre?

R. La normativa fiscale è migliorata molto con la parificazione dei fondi italiani a quelli esteri (tassati entrambi sul realizzato, ndr) e anche la regolamentazione è più snella ed efficiente. I gestori, dal canto loro, hanno fatto importanti innovazioni di prodotto.

D. Mediobanca però continua a dire che i fondi italiani sono fanalino di coda dell’industria europea.

R. La loro analisi è sostanzialmente corretta ma si focalizzano su una piccola parte dell’industria. I fondi di diritto italiano rappresentano solo un sesto dell’intero patrimonio, 200 milioni su 1,2 miliardi. È giusto guardare il mondo del gestito nella sua interezza, aggiungendo roundtrip, fondi esteri e i mandati istituzionali. Vista così, l’industria non è certo una Cenerentola, anche se le sfide rimangono molte. L’Italia è il Paese del risparmio e bisogna utilizzarlo al meglio. (riproduzione riservata)