Fino a quel momento, febbraio 1986, l’ing. Salvatore Ligresti non aveva mai rilasciato un’intervista

 

Domanda. Allora, il riservatissimo Ligresti è finalmente disposto a parlare di sé, a raccontare la sua storia…

Risposta: Beh, a un certo momento bisogna pure comunicare… Se ho deciso oggi è perché ci sono in ballo grosse iniziative, di grande rilevanza sociale.

 

Sono idee che avevo in testa da tempo… ma, prima di parlare, mi sembrava giusto affermarmi, perché più delle parole, per conoscermi, basta guardare i fatti.

 

D. I fatti sono tanti e la sua è un’affermazione strepitosa, quasi incredibile. Perché, ci si domanda. Come ha fatto? Quali sono le fondamenta del suo impero? Qual è il segreto della sua ricchezza? Ma cominciamo dall’inizio: come è arrivato Ligresti a Milano?

R. Non sono venuto subito a Milano, anzi, la mia permanenza a Milano è stata abbastanza casuale…

 

D. Lei viveva a Paternò, quel grosso paese ai piedi dell’Etna…

R. Sì, e frequentavo l’università di Catania, il primo biennio di ingegneria. La mia era una famiglia molto tradizionale, la grossa ambizione di mio padre e mia madre era che i due figli maschi diventassero uno medico e l’altro ingegnere. E così, poi, è stato. Comunque, finito il biennio, avevo deciso di completare gli studi al Nord e mi sono messo in viaggio alla ricerca della migliore università da Napoli in su.

 

Sotto, non mi sembrava il caso.

 

D. Non ha pensato subito a Milano?

R. No. Milano era una mia grande aspirazione, ma da studente il salto sarebbe stato troppo difficile.

 

D. E allora?

R. E allora sono passato prima a vedere Bologna e poi sono arrivato a Torino, al Politecnico, grande università… ma che freddo a Torino! Sono stato pochi giorni e mi ha preso un senso di solitudine terribile. No, Torino non era fatta per me e ho deciso di andare a vedere Trieste. Lungo la strada sono passato da Padova; il viaggio era lungo e io ero stanco e con pochi soldi in tasca. Mi sono fermato a mangiare in una tavola calda e si è avvicinata una bella figliola. Mi ha detto «comandi signore», con quell’accento tutto veneto, dolce… E stata una fulminazione e mi son detto «sono arrivato».

 

D. Quindi si è laureato a Padova.

R. Sì e con ottimi voti. A quel punto si trattava di decidere cosa fare. Dovevo ancora andare militare e avevo un amico che stava a Istrana, nell’aeronautica. Per essere ammessi in quell’arma occorreva però un punteggio molto alto, che io non avevo, e allora mi è venuta l’idea di iscrivermi all’aeroclub.

 

D. E così Ligresti è anche un pilota…

R. No, no, troppo rischioso, il brevetto non l’ho preso. Tanto bastava l’iscrizione e infatti sono stato ammesso alla Scuola di guerra aerea di Firenze, alle Cascine, e lì ho fatto il corso di sottotenente. E poi sono stato mandato a Milano, nella caserma di piazza Novelli.

 

Avevo un alloggio e, per fortuna, anche uno stipendio, stavo proprio bene.

 

D. Pochi soldi quando frequentava l’università, questo primo stipendio da militare. Quando racconta il suo passato sembra che il potente Ligresti, da giovane, fosse povero in canna. Eppure la sua famiglia possiede in Sicilia bellissimi agrumeti nella piana di Catania e i suoi genitori gestivano magazzini di tessuti. L’avevano forse abbandonato a se stesso?

R. Ma no! La mia era una famiglia benestante, ma niente dì eccezionale, una famiglia come tante. E la vita costa.

 

D. E quando ha finito il militare?

R. Sono rimasto a Milano e ho cominciato a cercare un posto. All’inizio ho lavorato gratis presso lo studio Minoletti. Ci davo sotto come un matto, 20 ore al giorno: ho imparato da solo come si fa a studiare i progetti per avere una maggiore resa finale. Questa è diventata la mia specializzazione. E poi ho imparato a menadito leggi e regolamenti, su questo terreno non mi batte nessuno.

 

D. In quel periodo viveva sulle spese.

R. Sì, ma è stato un grosso investimento. Erano gli inizi degli anni 60, mi dovevo fare le ossa. Sempre presso lo studio Minoletti mi sono fatto i primi amici: lì ho conosciuto l’architetto Mario Cattozzo e a un certo punto ho fondato con lui lo studio Ligresti-Cattozzo. Cattozzo è rimasto sempre con me, è un architetto nato, è una colonna. Poi ho conosciuto quello che sarebbe diventato il mio primo cliente, Turi Manzoni: uomo oculatissimo, era il proprietario del famoso cavallo Tornese.

 

D. Ma qual è stato il suo primo vero affare?

R. È una storia bellissima. Avevo saputo della possibilità di acquistare il diritto per costruire un sopralzo, in via Savona, in Zona Genova. Ma ci volevano 15 milioni e io ne avevo solo 5. Ma non mi sono perso d’animo. Sono andato al Credito Commerciale per chiedere un prestito e mi ha ricevuto il direttore generale Mascherpa.

 

D. Senza farle fare anticamera e senza raccomandazioni…

R. Mascherpa era un grande banchiere, un uomo di grosso intuito: io parlavo e lui mi ascoltava e a un certo momento mi ha detto: «Le do 10 milioni». Quasi non ci credevo… Non solo. Mascherpa mi ha anche incoraggiato..

 

D. Con quei 10 milioni…

R. Ho fatto il progetto, ho rivenduto il diritto per 50 milioni, guadagnando in un colpo solo 35 milioni. Era il 1962, mi ricordo che camminavo da solo in piazza Duomo e mi sentivo un uomo ricco! Pensi: vivevo in una casa albergo a via Corridoni, uno squallore che a ripensarci viene una grande tristezza, avevo posto il mio quartier generale in un locale di tre metri per tre preso in subaffitto in via Cernusco. Che tempi…

 

D. Poi improvvisamente si è trovato con 35 milioni in tasca: il primo mattone di una grande fortuna. Cosa ne ha fatto?

R. Mi guardavo intorno e a un certo punto ho avuto tra le mani un’operazione immobiliare di un certo rilievo proprio di fronte al cinema Susa, allora di proprietà di Michelangelo Virgillito, che si interessò subito alla cosa e mi mandò a chiamare.

 

D. Il nome di Virgillito fa ancora sussultare i vecchi operatori di borsa. Forse fu il primo grande speculatore, il progenitore della razza dei Sindona, un personaggio pittoresco, che tra l’altro era suo compaesano…

R. Sì, ma questo non c’entra. Virgillito in quel momento era già a capo della Liquigas e non mostrava molta disponibilità nei confronti dei suoi compaesani.

 

D. Come l’ha conosciuto?

R. Grazie al senatore Antonino La Russa, grande amico di mio padre e amico anche di Virgillito. Ma, a parte questo affare, per il quale sono stato pagato una miseria, poi per lungo tempo non ho più avuto contatti di lavoro con Virgillito.

 

D. E rapporti di altro tipo?

R. Virgillito mi ha insegnato molte cose. Mi ha insegnato prima di tutto a non fare debiti: «Se a Milano fai debiti», mi diceva, «ti chiudono le porte e la borsa». In effetti a Milano il denaro gira all’impazzata, bisogna stare attenti, non fare mai il passo più lungo della propria gamba. Virgillito mi ha anche insegnato come si compra in borsa. Ho scoperto tutte le tecniche e quando ho capito quali erano i meccanismi, mi sono mosso da solo, spesso facevo il contrario di quello che lui mi diceva… La borsa è la scuola che ti insegna il momento giusto per fare acquisti e questo ti serve anche nella vita, nel tuo lavoro quotidiano. Così ho imparato a comprare terreni quando altri vendevano.

 

D. Insomma fin dall’inizio ha sempre avuto un grande senso degli affari.

R. Questa è una dote innata. Mi viene da mia madre, Era bravissima in commercio. E dei miei figli, Lionella, la più grande, e quella che mi somiglia di più.

 

D. Guardando all’indietro qual è il progetto che l’ha laureata grande ingegnere e architetto? In pratica qual è il lavoro realizzato che più le dà soddisfazione?

R. Ce n’è uno in particolare. È il complesso architettonico di corso Vittorio Emanuele dove oggi c’è il centro sportivo Skorpion. Sono stato io a pensare per la prima volta a una piscina nel centro di Milano. Lì in quel punto si interrompono le colonne del corso, là dietro c’è il grande autoparcheggio sotterraneo. Per quel parcheggio, con le macchine tutte in pendenza, non ho dormito per 15 giorni, l’idea mi era venuta guardando le macchine parcheggiate parte sul marciapiede e parte sulla strada.

 

D. E poi?

R. E poi una notte, alle quattro, ho capito come fare! Io sono un osservatore!

 

D. Chi le aveva affidato quel progetto?

R. È stato Vittorio Riva, fratello di Felice, che mi ha anche messo in contatto con lo studio Belgiojoso. Riva è un mio grande amico, lo stimo molto. Ebbene io ho fatto il progetto e curato la parte funzionale. Belgiojoso ha curato la parte estetica, tutta la costruzione è stata realizzata da Andrea Brenta, mentre la parte legale e urbanistica è stata seguita da Achille Cutrera. Brenta e Cutrera sono altri due amici miei. Insieme abbiamo costruito il condominio in via Helvetia 12, dove oggi ho messo la sede della Grassetto.

 

D. Lei tiene molto all’amicizia.

R. Nella vita i rapporti umani sono tutto. Riva è stato anche padrino di mio figlio.

 

D. Chi è in assoluto il suo migliore amico?

R. Che domanda difficile! Senza dubbio i miei collaboratori.

 

D. Ma chi si sente più vicino degli altri?

R. La Russa. E un uomo di grande rettitudine morale, un uomo che mi è sempre stato vicino.

 

D. Anche come socio nei suoi affari?

R. Ma no! La Russa è il vicepresidente della Sai e della Pozzi Ginori, mi ha sempre dato ottimi consigli, ma può essere tutto meno che un uomo d’affari!

 

D. La Russa l’ha messa in contatto anche con Raffaele Ursini.

R. Sì, quando era direttore generale della Liquigas e Virgillito controllava la società.

 

D. Con Ursini ha fatto numerosi affari?

R. Non tantissimi. Per la Liquigas ho costruito il grande residence Leonardo Da Vinci. Di residence ne ho fatti tanti, sempre in ricordo di quella mia prima squallida casa albergo. Ma prima di conoscere Ursini ho realizzato molte altre cose.

 

D. Quali?

R. Per esempio l’autosilo sotterraneo di piazza Borromeo. In quella occasione ho conosciuto Paolo Lodigiani e per lui ho costruito le rampe d’accesso del complesso che stava costruendo: è stato un altro incontro trasformatosi in amicizia. Poi ho fatto case per l’Alleanza, per la Ras.

 

D. A quel punto Ligresti era già abbastanza ricco…

R. Beh, sì. Già a quell’epoca cominciavo a guadagnare bene. Progettavo e stavo attento alle occasioni.

 

D. Lei però non ha mai costruito direttamente.

R. No. Io ho sempre fatto l’intera progettazione e poi ho contattato di volta in volta le varie imprese che eseguivano i lavori. Io sono un professionista. Con questa tecnica si possono fare molte cose, senza doversi impegnare nella realizzazione delle singole opere.

 

D. E in questo modo è riuscito a fare grandi guadagni?

R. Ho sempre preteso una partecipazione agli utili: all’inizio il 2%, poi il 5%, poi il 10% e adesso almeno il 20%.

 

D. Quartieri residenziali, residence, palazzi per uffici. Siamo nel 1965 e Ligresti ha realizzato una fortuna a velocità supersonica. Per Virgillito non è ancora sufficientemente bravo?

R. Mi ha cercato nel 1967: voleva realizzare un garage sotto il cinema Corallo. Mi ha pagato profumatamente la consulenza e il progetto. In quell’occasione ho inventato il famoso piano antiscoppio.

 

D. E poi?

R. Virgillito mi ha detto in quella occasione di dare in beneficenza il 10% del mio onorario.

 

D. A quanto pare era un suo pallino. Quando è morto, Virgillito ha lasciato tutto a una fondazione a beneficio dei poveri di Paternò.

R. Lui si accontentava di poco. Viveva in un piccolo appartamento di tre stanze, in corso Magenta, e mi ha sempre raccomandato di fare del bene.

 

D. E lei ha seguito il suo consiglio?

R. Io ho sempre avuto in animo di fare delle cose che migliorassero la qualità della vita. Quando realizzo un garage è un modo per creare ordine, per eliminare il caos. Anche nel settore della medicina. Le mie cliniche, la Città di Milano e l’Istituto Galeazzi, dirette da mio fratello Antonino, sono attrezzatissime. La salute è importante, è bene avere un punto di riferimento sicuro. Per esempio sono riuscito ad avere in Italia quel nuovo apparecchio che bombarda i calcoli renali.

 

D. Torniamo a Ligresti ingegnere. Per ogni affare lei ha costituito una società. Quanti sono oggi i suoi satelliti? Ha mai razionalizzato il suo impero? Si parla di un giro d’affari di centinaia di miliardi.

R. Di queste cose mi intendo poco. So solo che le società sono tante e che con me lavora un esercito di ingegneri. Tutto è in regola. Non ci sono ombre.

 

D. Gli immobili, i progetti sono la sua grande passione. E la finanza? Ligresti passa anche per un abile finanziere. Come è avvenuto questo suo passaggio in un settore così diverso?

R. Ma io ho sempre operato in borsa.

 

D. Anche insieme a Ursini?

R. No. Con Ursini c’erano rapporti cordiali, ma ciascuno faceva i propri affari.

 

D. Poi però, quando è dovuto scappare, Ursini le ha lasciato la Sai che oggi è il pezzo forte dell’impero Ligresti.

R. Io la Sai l’ho comprata in borsa, quando anche Ursini vendeva e il titolo valeva 4.000 lire. Ursini, per salvare la Liquigas, si vendeva anche la camicia.

 

D. L’attuale pacco di controllo è stato dunque comprato in borsa?

R. Sì, dopo il primo acquisto, ho comprato un pacco di titoli da· Aldo Ravelli, ma già costavano di più, circa 6 mila lire. Aldone, tra l’altro, è un mio amico. E più tardi ho comprato un’altra quota dall’Italcasse, ma questa volta ho speso molto di più.

 

D. Quanto ha speso in tutto?

R. Non molto.

 

D. 50, 60 miliardi?

R. Di più, di più.

 

D. Lei è padrone del 36,4% della Sai attraverso le sue quattro finanziarie Premafin, Finetna, Aster e Infin. Nella Finetna ha sempre come soci i Massimino di Catania?

R. All’inizio. Adesso non più, è tutto mio.

 

D. Chi si nasconde dietro l’Interbaros? Questa finanziaria partecipa al sindacato di controllo della compagnia.

R. Non si nasconde nessuno. Io so che è dei Rothschild e il barone Elie è venuto spesso, personalmente, alle assemblee della Sai. È un tipo molto simpatico.

 

D. Quando ha avuto sicurezza di avere il controllo della compagnia?

R. Nel 1978, e non avevo ancora il 36%.

 

D. E perché allora ha aspettato tanto per uscire allo scoperto? Questa sua mania di nascondersi dietro società misteriose ha fatto credere per molto tempo che lei facesse il prestanome di qualcuno. Forse dello stesso Ursini.

R. Non ho mai fatto il prestanome di nessuno.

 

D. Il suo passato sconosciuto, la sua origine siciliana hanno indotto qualcuno a pensare a un suo aggancio con l’onorata società.

R. Follie. Non vale nemmeno la pena di rispondere a cose del genere. Le banche, i personaggi che contano mi hanno sempre conosciuto benissimo, fin dall’inizio. E poi sarei mai riuscito a entrare in affari con Carlo De Benedetti, piuttosto che con Raul Gardini?

 

D. Parliamo del Ligresti degli ultimissimi tempi. Di colpo, con l’ingresso della Sai nel sindacato di controllo della Cir, lei ha inaugurato l’era delle grandi alleanze con il gotha della finanza italiana. Ed è comparso in prima persona.

R. È vero, per me le alleanze sono fondamentali. Da sempre. Non ho mai pestato i piedi a nessuno, e poi a che serve fare le guerre? Sono controproducenti.

 

D. Così proprio di recente è anche entrato nel sindacato di controllo della Montedison e siede vicino a Mario Schimberni.

R. Certo. E poi con la Sai sono anche nel sindacato dell’Italmobiliare, dell’Italcementi, della Pirelli, oltre che nella Cir. La Sai è il principale tramite per allacciare amicizie e alleanze in campo finanziario. È una compagnia che va bene, Enrico Piantà (amministratore delegato, ndr) è abilissimo, vive per l’azienda.

 

D. Con la Sai ha stretto la mano a Leopoldo Pirelli, a Giampiero Pesenti, a De Benedetti e a Gardini. E con la Grassetto?

R. Con la Grassetto realizzerò alleanze in campo edilizio, nelle grandi costruzioni, come è già avvenuto realizzando la Milano Sviluppo, un consorzio formato con altre sei grandi società: Marcora, Romanengo, Castelli, Cile, Lodigiani, Meregaglia. Ognuno di noi ha preso 1/7 del capitale.

 

D. La Grassetto è anche la sua prima impresa di costruzioni…

R. Sì, ma non farà costruzioni per conto del gruppo. Continuerà a occuparsi dei suoi grandi lavori, delle metropolitane. Sono convinto che ogni azienda deve restare autonoma.

 

D. Quali sono oggi i suoi progetti?

R. Oggi i miei sforzi sono tutti per Milano. Questo è un momento magico per la città. Adesso si fa la politica per i prossimi 100 anni e Milano, come centro d’Europa, deve avere uno sviluppo importante.

 

D. Che cosa ha in mente?

R. È una grande proposta. Guardi qui sulla pianta di Milano quante sono le aree industriali nella città. Molti sono capannoni abbandonati. Ebbene bisogna studiare la pianta nel suo insieme, eliminare queste aree morte, spostando i diritti volumetrici all’esterno della città o ai centri direzionali. E al loro posto costruire impianti sportivi, parcheggi, creando ordine, migliorando i quartieri, creando spazi vitali per i bambini che avrebbero il loro giardino dove giocare. Questo è il modo efficace di combattere la delinquenza, la droga. E poi occorre costruire gli uffici dove servono, in posti facilmente raggiungibili dalle tangenziali e dalla metropolitana. Nella zona sud della città si potrebbe costruire un quartiere tipo quello dell’Eur a Roma, lì si possono portare i servizi con poca spesa.

 

D. Le mani di Ligresti sulla città.

R. Non parliamo solo di Ligresti. È la Milano sviluppo che a proprie spese «dovrebbe fare queste proposte. Non è più il momento per andare avanti da soli, sono fatti di grande respiro che bisogna realizzare insieme e io propongo di costituire società miste pubbliche e private anche aperte al pubblico, così che nessuno possa parlare di speculazione.

 

D. È vero che ha un rapporto preferenziale con il presidente del consiglio Bettino Craxi?

R. Conosco Craxi da quando era consigliere comunale, ma non credo che lui abbia rapporti preferenziali.

 

D. Lei è uno degli uomini più ricchi d’Italia.

R. Ma questo cosa c’entra? Alla gente non interessa sapere cosa guadagno. La gente, piuttosto, vuole parcheggiare la macchina con facilità, vuole vivere tra il verde. E io l’aiuto.

a cura di Anna Di Martino