RC
Informazione, comunicazione, formazione. Il loro ruolo nel sistema di responsabilità civile italiano
Autore: Riccardo Tacconi
ASSINEWS 233 – luglio-agosto 2012
VI capitolo
Come informare e come comunicare: le problematiche
Come ho già messo in evidenza in altre occasioni, la situazione degli Italiani – dal punto di vista della comunicazione e comprensione dei testi – non è rassicurante, in specie se si pensa che:
Dati ISTAT 2006
Dichiarano: “non so leggere, leggo male” (Indagine ISTAT 2006)
Ma non basta…
“Se sull’Italia pesano 39 milioni di ignoranti”, di Mario Pirani1
Un pedagogo di alto valore, il professor Saverio Avveduto, mi ha fatto pervenire un dossier di testi, corredati da dati e statistiche, sia suoi che di Tullio De Mauro, già ministro della Pubblica istruzione, sullo stato del nostro panorama educativo. Val la pena di cogliere, non da fiore a fiore, ma da rovo a rovo, alcuni grovigli spinosi del nostro sistema. Il dato più sconfortante è la distanza abissale tra le oasi di alto sapere (che comprendono premi Nobel e grandi chirurghi, scienziati e letterati, ricercatori industriali contesi a livello internazionale) e i vasti deserti di una popolazione priva delle conoscenze essenziali per orientarsi nella complessità del mondo d’oggi. Da una scheda dell’Ocse risulta che nella classifica sulla condizione educativa (tale da permettere all’individuo di capire il titolo di un giornale, un semplice questionario, un pubblico avviso) l’Italia occupa il penultimo posto fra una trentina di paesi industrializzati, seguita solo dal Portogallo. A questa situazione soggiace il 68,2% della popolazione, pari a 39.146.400 unità, una cifra da paura che necessita, peraltro, di una spiegazione. Essa comprende, infatti, gli analfabeti totali, i cittadini privi di qualsiasi titolo di studio ma anche quelli che hanno ottenuto la licenza elementare e quella media inferiore.
La valutazione di questo assieme che scardina il significato dei parametri dell’Istat (l’Istituto qualifica come analfabeti solo coloro che si autodefiniscono tali, senza nessuna verifica obbiettiva sulla validità dell’autodichiarazione) si basa, come ricorda Tullio De Mauro nel saggio-intervista La cultura degli italiani (a cura di Francesco Erbani, ed. Laterza), su una regola che gli studiosi di pedagogia sperimentale chiamano del “meno cinque”. Secondo questo principio in età adulta regrediamo di cinque anni rispetto ai livelli massimi delle competenze cui siamo giunti nell’istruzione scolastica formale. Alla fine del liceo, ad esempio, si è arrivati a studiare derivate e integrali e altre operazioni matematiche complesse ma se non si fanno professioni collegate a statistica o economia, se non si è bancari, commercialisti o ingegneri che ne rimane in età adulta? Nozioni, se va bene, da terza media. Ma non è solo la matematica a subire il “meno cinque”.
Quanti hanno studiato il greco al liceo e poi, in età adulta, guardano una pagina di greco come se fosse scritta in ideogrammi cinesi? Avveduto ha perciò suggerito di considerare regrediti di cinque anni in materia di competenze alfabetiche tutti quelli che hanno soltanto la licenza elementare. Cinque meno cinque fa zero. Chi ha la sola licenza elementare, tolto chi esercita particolari mestieri che lo portino a leggere e scrivere, come ad esempio i tipografi, in età adulta torna in condizioni di analfabetismo.
Gli analfabeti effettivi, secondo Avveduto, sono da stimare a un terzo della popolazione e sfiorano i venti milioni. Una cifra assai lontana da quell’1% che alla domanda scritta dell’Istat ha il coraggio di rispondere sinceramente di “non sapere né leggere né scrivere”.
Se riflettiamo su questo dato assai più reale delle statistiche ufficiali ci si rende conto di quanto incida la pochezza culturale e il basso livello del capitale umano. Impressiona in proposito la classifica Ocse sugli investimenti in conoscenza: tra i sei ultimi Paesi figurano Portogallo, Grecia, Italia (terzultima), Irlanda e Spagna. Gli stessi messi sotto sorveglianza da Fmi e Ue per l’indebitamento schiacciante e l’incapacità di farvi fronte. Eppure non c’è segno di resipiscenza che indichi una qualche attenzione alla cultura. Indicative e inedite sono in proposito le ore dei programmi culturali sui vari canali (fonte Istat): Rai Uno ore/anno 4,3%, Rai Due 10,6%, Rai Tre 13,2%, La 7 20,3%, Canale 5 0,3%, Italia1 0%, Rete4 1,9%. Per quanto riguarda la radio le risultanze sono simili, tranne che per Rai Tre che riserva il 32,8% delle sue ore al sapere degli ascoltatori. Le sia dato merito”.CONTENUTO A PAGAMENTO
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