I reati ambientali entrano nella 231. Ma in modo blando. A dieci anni dall’entrata in vigore del decreto legislativo 231, la responsabilità amministrativa degli enti si estende anche ai reati ambientali. Era stato previsto sin dall’emanazione della normativa nel 2001 ma solo lo scorso 7 luglio, con l’approvazione dello schema di decreto legislativo recante il recepimento della direttiva 2008/99/CE in tema di tutela penale dell’ambiente, il consiglio dei ministri ha concluso il complesso iter legislativo di adeguamento della normativa italiana alla legislazione comunitaria.
È giusto avvertire sin d’ora che la tanto attesa (o forse temuta) portata dirompente per le imprese di questo intervento è in larga parte rimasta inespressa. Dalla lettura dell’articolato della direttiva e dalla relazione illustrativa del consiglio dei ministri, ci si attendeva un’applicazione concreta ispirata a criteri di maggior rigore. È però vero che la tutela penalistica sostanziale dell’ambiente è in Italia, quasi del tutto affidata a ipotesi di reato di pericolo di natura contravvenzionale; l’impianto sanzionatorio definito dal codice penale e dal Testo Unico dell’Ambiente del 2006, a fronte di una molteplicità di illeciti, prevede una sola fattispecie delittuosa e una miriade di contravvenzioni, buona parte delle quali addirittura estinguibili a mezzo di oblazione. Insomma, non propriamente un vero arsenale punitivo deterrente.
L’estensione della responsabilità degli enti a tale tipologia di reati, non sembra aver più di tanto sovvertito l’impostazione appena descritta. Pur partendo dalla considerazione che la stragrande maggioranza dei reati ambientali vengono commessi in ambito aziendale e nel preponderante interesse delle imprese, si è forse persa l’opportunità di ribilanciare l’eccessiva tenuità delle sanzioni a carico delle persone fisiche, prevedendo un trattamento sanzionatorio più rigoroso quantomeno nell’ambito del decreto 231. E invece: sanzioni pecuniarie fino a un massimo di 300 quote e sanzioni interdittive contemplate in un limitato numero di casi e per una durata non superiore a sei mesi.
A tutto concedere, si può forse supporre che la mitezza punitiva sia spiegabile con la peculiarità del sistema penale ambientale italiano fondato sulla contravvenzione, tipologia di illecito punibile tanto a titolo di dolo quanto di colpa. Il che, tradotto, significa corrispondere sanzioni proporzionate all’effettivo disvalore della presumibile maggioranza delle contestazioni per 231 che avrà origine in condotte di natura solamente colposa.
È pur vero che l’inserimento di questi reati nella 231 si inquadra in un disegno di responsabilizzazione delle imprese anche a fronte di violazioni non intenzionali, già sperimentato con l’inserimento dei reati in materia di sicurezza sul lavoro. Il che rappresenta un volano applicativo di non scarso rilievo, che potrà far da controaltare alla blanda incisività delle singole misure sanzionatorie.
È infine da sottolineare la mancata espressa previsione di rinvio a strumenti di certificazione ambientale, alla stessa stregua di quanto previsto dal Decreto legislativo 81/2008 per i reati legati all’ambito antinfortunistico. Qualunque opinione si possa avere rispetto al richiamo di tali certificazioni in ambito 231, non si può sottacere come queste abbiano in ogni caso il merito di contribuire a guidare l’interpretazione giudiziale, ancorandola a parametri non certo di valore assoluto ma senza dubbio più rigorosi e oggettivi, applicabili indistintamente alle diverse realtà aziendali.