È un bisonte vestito da Caraceni: è sopravvissuto a molte mazzate, ma quest’ultima è davvero molto forte. Lui dice: «Resto sereno». E intanto il suo amico Vincent Bolloré sale in Mediobanca
Candidamente e controcorrente confesso che, sul piano umano, il dott. Cesare Geronzi non me la sento di demonizzarlo. E’ vero che anni prima, quando parlando con Enrico Cuccia il discorso finiva sul “romano”, il gran banchiere scuoteva la testa, ma Cuccia nemmeno stimava Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia: li considerava arrivisti, legati a quei giochi capitolini in cui si intrecciavano, sotto la regia dell’onnipotente Giulio Andreotti, gli affarismi dello Ior di Monsignor Marcinkus, gli aiuti sotto traccia ai partiti, spericolate operazioni di borsa e finanziamenti agli amici di turno. Fra questi il PDS di Massimo Dalema e Silvio Berlusconi allorché Mediaset decise di quotarsi.
Geronzi il 4 luglio scorso è stato condannato per il fallimento Cirio a 4 anni e 6 mesi di reclusione. Non è il primo incidente giudiziario, eppure si è dichiarato sicuro: “Resto tranquillo”. Una frase che gli ho puntualmente sentito ripetere durante i colloqui che con il garbo e il distacco del gentiluomo “incompreso” mi ha concesso durante la scrittura di vari libri sulle tormentate e mai limpide vicende della finanza del dopo guerra.
A dirla schietta il dott. Geronzi, classe 1935, da Marino (Roma), è un’enigma vivente. I critici sostengono abbia fatto carriera perché sensibile a superiori interessi e con illustri padrini. Peraltro tutti riconoscendogli straordinarie doti di manovratore. Agli inizi, approdato in Banca d’Italia, divenne il pupillo di Guido Carli. Lavorava come un mulo e i compagni di banco Lamberto Dini e Antonio Fazio lo soprannominarono Colonnello “Koch”. Predicendogli la poltrona di governatore.
Invece, allorché Carli lascia, nel 1975, il Colonnello chiede il trasferimento al Banco di Napoli, tramite Andreotti. Distacco strategico. Dopo un lustro, con l’arrivo in Banca Italia di Carlo Azeglio Ciampi, ottiene uno strano mandato: mettere ordine nel marasma delle banche romane e costruire un’alternativa a Mediobanca. In sostanza, trasferire il cuore del potere finanziario dal gotico Duomo ambrosiano, all’ombra di Campidoglio.
Morto Cuccia, scomparso il delfino Vincenzo Maranghi, smobilitata Capitalia, Cesare fa rotta al nord, proprio a Mediobanca. Faticosamente (è finito nella polvere il sodale Fazio; molti soci storcono e la Fiat se ne va), ha trovato un alleato giovane, potente, ambizioso in Vincent Bolloré. Ultimo rampollo di una dinastia transalpina che ha sempre goduto i favori dell’Eliseo, ha fatto dell’Italia terreno di caccia grossa. E ha una robusta presenza in Mediobanca, che proprio in questi giorni sta incrementando (è andato sopra il 5 per cento).
Comunque i troppi nodi giudiziari che affliggono Geronzi vengonoal pettine. Per regolamenti e statuti, la presidenza di Mediobanca è insostenibile: ed ecco il trasferimento alle Generali che Geronzi pretende di gestire dalla sede romana, poiché là tiene famiglia. Fra le prime mosse, una vice presidenza all’ ambizioso Bolloré. Screzii a ripetizione con i manager, clamoroso allontanamento con milionaria liquidazione.
Impertinente domanda: c’è ancora un futuro per Cesare Geronzi? Nei corridoi di Mediobanca corre una battuta greve: “E’ un bisonte che continua a correre nonostante le mazzate, ma quest’ultima può essergli fatale”. Lui invece, perfetto aplomb in abito di Caraceni, non fa un plissè. Che abbia ancora qualche Santo nel Paradiso degli gnomi? O anche: forse che tutti gli altri banchieri in circolazione sono immacolati cherubini?