La manovra rinvia definitivamente l’assegno pensionistico di tutti gli italiani. Ecco le trappole nascoste. Chi programmava l’addio al lavoro nel 2014 sarà costretto ad aspettare anche 21 mesi. E sui nati nel 1973 si abbatte un vera stangata. È una rivoluzione che cambierà l’Italia 

di Roberta Castellarin

Bye bye pensione. Chi è nato nel 1973 e ha iniziato tardi a lavorare dovrà aspettare i 71 anni e sei mesi per andare in pensione. E chi contava di andare in pensione nel 2014 con 40 anni di contributi versati, dovrà aspettare 15 mesi se è un lavoratore dipendente e 21 se è un autonomo.

 

Ancora una volta la manovra salvaconti approvata nei giorni scorsi fa cassa rinviando l’assegno pensionistico dei lavoratori. E questa volta le prime a dover rifare i conti sono le donne perché la manovra prevede una progressiva equiparazione dell’età pensionabile tra uomini e donne. Come già era avvenuto per il settore pubblico, anche per chi opera nel privato si arriverà nei prossimi anni alla soglia dei 65 anni, o più. Ma se le donne sono le più colpite, con casi in cui l’appuntamento con il buen retiro è rinviato anche di sette anni, nessun lavoratore resta escluso dal nuovo intervento. Fatta eccezione per chi matura i requisiti nel 2011 e per le donne che possono beneficiare dell’opzione contributiva. Si tratta della più grande sforbiciata degli ultimi 15 anni, dai tempi del governo Dini e questa volta nelle misure approvate in via definitiva dalla Camera venerdì 15 luglio ci sono amare certezze: la pensione d’anzianità sparisce per sempre per milioni di lavoratori e in tanti dovranno restare al lavoro qualche anno in più. «Questa volta la riforma coinvolge tutti i lavoratori, con incrementi che potranno andare da 1 a 15 mesi per gli uomini, e da 1 a 87 mesi (più di 7 anni) per le donne.

Per queste ultime, naturalmente, valori così elevati sono dovuti al sommarsi del nuovo requisito di vecchiaia dal 2032 (quando si arriva all’equiparazione uomo e donna) con gli incrementi della speranza di vita», dice Andrea Carbone di Progetica. Che aggiunge: «Piccole variazioni nella data di nascita e di inizio dell’attività contributiva possono portare a valori differenti, soprattutto per coloro che stanno maturando i requisiti in questi mesi». Ma come si arriva a questo risultato?

Per prima cosa si allungano le finestre di uscita per i lavoratori, con un incremento da uno a tre mesi. In particolare chi matura i requisiti nel 2012 aspetterà un mese in più, che diventano due nel 2013 e tre nel 2014. E questi si vanno a sommare alle finestre introdotte da Sacconi. Quindi come già era avvenuto con l’introduzione delle finestre di 12 mesi per i dipendenti e di 18 per i lavoratori autonomi anche chi ha 40 anni di contributi deve aspettare un anno o più per ricevere l’assegno Inps. Il pensionando ha due scelte: o continua a lavorare per 12-18 mesi in più oppure resta a casa senza percepire l’assegno per tutta la finestra. Con il nuovo correttivo dal 2014 l’attesa diventa di 15 mesi per i dipendenti e di 21 per gli autonomi. Ma non è finita qui. La manovra infatti anticipa anche al 2013 l’avvio della riforma che lega l’età pensionabile alla speranza di vita: il primo scalino sarà al massimo di tre mesi, a questo seguirà un incremento triennale dei requisiti dal 2016 invece che dal 2019.

 

Per le donne vuol dire che l’equiparazione non significherà una pensione a 65 anni, ma anche a 70 o oltre per chi è nato dopo gli anni 60 e ha iniziato tardi a lavorare.

 

Il fatto che l’adeguamento tra uomini e gentil sesso nel privato avverrà solo tra il 2020 e il 2032 non deve trarre in inganno, perché l’impatto sarà notevole per tutte le 40enni oggi al lavoro. Avere posticipato al 2020 l’avvio dell’innalzamento di fatto salva solo le 50enni, che dovranno fare i conti con un leggero spostamento in avanti della pensione. Non appaiono, poi, coinvolte le donne che hanno iniziato a lavorare a 20 anni, o prima, perché resta salvo il principio che si può andare in pensione con 40 anni di contributi. Tutto un altro discorso vale per chi è nato negli anni 60 e ha iniziato tardi a lavorare: una lavoratrice dipendente nata nel 1964 e che ha iniziato a versare contributi a 35 anni, prima poteva andare in pensione a 62,7 anni, con le nuove regole dovrà aspettare i 68,3, quindi quasi sei anni in più. E chi è nata nel 1968 dovrà compiere 70 anni. «Non ci sarà un aumento automatico di cinque anni dell’età di pensionamento, ma la tempistica varia da profilo a profilo», spiega Andrea Carbone di Progetica. «La scelta di differire al 2020 l’inizio degli scalini sposterebbe sulle donne che compiranno 60 anni in quella decade gli effetti più significativi. Ma chi ha iniziato a lavorare presto potrà beneficiare del requisito dei 40 anni di contributi, pur dovendo tener conto delle finestre». Per tutti poi vale un’avvertenza: sapere la data «certa» in cui si potrà andare in pensione non è possibile perché questa dipenderà dall’evoluzione dell’incremento della speranza di vita. (riproduzione riservata)