Nuovo tsunami: le più colpite sono Intesa (-7,7%) e Unicredit (-6,3%) che retrocedono ai minimi del 2009.
Ora i big del credito valgono 58 miliardi Dopo il venerdì nero della scorsa settimana, quella di ieri è stata un’altra giornata da dimenticare per le banche italiane, tornate indietro di due anni ai livelli di marzo 2009. Con il crollo di ieri, che ha visto andare in fumo altri 4 miliardi di capitalizzazione, basterebbero ora poco più di 58 miliardi per aggiudicarsi i primi cinque istituti di credito italiani, contro i 62 miliardi dello scorso venerdì e i 66 del giorno precedente (vedere F&M dell’8 luglio). In pratica, Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps, Ubi Banca e Banco Popolare capitalizzano quasi 8 miliardi di euro in meno rispetto alla chiusura del 7 luglio e ben 15 miliardi in meno da venerdì primo luglio, ultimo giorno positivo prima del grande crollo. Da allora, le banche sono state travolte dalle vendite per sei sedute consecutive. Tornando alla giornata di ieri, il titolo peggiore è stato Intesa Sanpaolo, che ha subito un calo del 7,74% (e una breve sospensione delle contrattazioni) scivolando in fondo al Ftse/Mib (-3,96%) e chiudendo a 1,52 euro: valori che non vedeva dal 10 marzo 2009. Sullo scivolone ha influito negativamente anche la bocciatura di Hsbc, che ha abbassato a neutral la raccomandazione sul titolo dell’istituto guidato da Corrado Passera, dal precedente overweight. La più bersagliata delle ultime sedute, però, è stata Unicredit: ieri, dopo essere arrivata a perdere oltre 10 punti percentuali, a 1,10 euro, ha archiviato la debacle al 6,33%, scendendo a 1,15 euro, sui minimi da aprile 2009. Anche il Banco Popolare, con una flessione del 3,52% a 1,37 euro, è tornato ai livelli del 9 marzo di due anni fa, mentre Ubi Banca (-2,79%) ha toccato il nuovo minimo storico a 3,48 euro. Mps, invece, è scesa del 4,48% a 0,492 euro, mantenendosi leggermente sopra i minimi del 28 giugno. A giudicare dai numeri, non si è per niente arrestata la speculazione a Piazza Affari, per nulla rincuorata dalla trasparenza imposta dalla Consob sulle vendite allo scoperto. Sull’andamento della seduta – che in gran parte ha ricalcato il film già visto i venerdì 24 giugno e 8 luglio – è intervenuta la stessa Consob: «A una prima analisi l’impressione è che non si tratti di vendite allo scoperto, ma di vendite effettive». Gli operatori puntano invece il dito sui derivati, in particolare sui «credit default swap», ossia gli strumenti con i quali gli investitori si assicurano contro l’insolvenza di un paese; e che, secondo alcuni, andrebbero bloccati.