Quale eredità ci lasciano le normative emergenziali degli ultimi mesi che hanno anche pianificato il ritorno alla normalità? Lo abbiamo chiesto ad uno dei più influenti giuristi italiani, il consigliere della Corte di Cassazione Dott. Marco Rossetti che sarà tra i relatori del Seminario web di ASSINEWS “Covid-19 e Assicurazioni. La responsabilità del datore di lavoro per i danni da contagio e la tutela di chi si ammala“, in programma l’11 giugno 2020
Con il coacervo di leggi prodotte dalla normativa emergenziale, sarà inevitabilmente la giurisprudenza a garantire, ancora una volta, la corretta applicazione attraverso la sapiente interpretazione delle Corti.
In tre mesi esatti, dal 23 febbraio al 23 maggio, per fronteggiare l’epidemia da Covid-19 si sono succeduti dodici decreti-legge e ventidue decreti del Presidente del Consiglio dei ministri. A queste fonti normative di livello nazionale devono aggiungersi quelle regionali. Tra leggi regionali, ordinanze o decreti dei presidenti della regione, delibere delle giunte regionali, in tema di Covid-19 se ne contano ben 1.740!
E’ singolare però rilevare che i quasi 2.000 provvedimenti normativi statali e regionali appena ricordati non devono essere apparsi troppo chiari neanche agli stessi organi dello Stato-apparato. Dal momento che la pubblica amministrazione in tutte le sue articolazioni (Ministeri, Autorità di vigilanza, Inail, Inps, Protezione Civile, Assessorati regionali, Sindaci, direttori delle ASL, capi degli uffici giudiziari) ha sentito ulteriormente il bisogno di precisare, dettagliare e spiegare i suddetti provvedimenti con un profluvio di atti amministrativi dal tenore più vario: circolari, note esplicative, lettere al mercato (chissà se il mercato ha mai risposto), istruzioni, protocolli, note di servizio, e via dicendo secondo l’infinità varietà che solo l’universo e la nostra pubblica amministrazione sono in grado di offrire.
Il risultato è stato un quadro normativo paurosamente farraginoso, perennemente mutevole, talora contraddittorio e in parte anche inutile. Così, tanto per fare un esempio: nell’art. 2, comma primo, secondo periodo, dell’Allegato 1 alla Delibera della Giunta regionale della Campania del 4.3.2020, emanata per disciplinare il lavoro da casa degli impiegati regionali, si legge: « l’Amministrazione regionale (…) si riserva la possibilità di modificare il testo della presente delibera». Parole sprecate, posto che qualunque norma può essere modificata od abrogata da chi ne ha la potestà.
Facciamo un altro esempio, più tecnico e meno evidente: l’art. 3, comma 6 bis, d.l. 23 febbraio 2020, n. 6, così come modificato dall’Art. 91 del successivo DL 18/2020 ha stabilito: «il rispetto delle misure di contenimento [dell’epidemia] di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti».
Ebbene, applicare le misure di contenimento dell’epidemia costituisce un obbligo imposto dalla legge. Chi non adempie un contratto od una obbligazione perché costrettovi dalla necessità di rispettare la legge tiene una condotta che non è colposa, perché imposta dal c.d. factum principis. E chi tiene una condotta che non è colposa non risponde delle conseguenze dell’inadempimento. Queste regole sono scritte nel codice civile da ottant’anni (art. 1218 c.c.), e vengono comunque pacificamente applicate da circa due millenni.
Mi si dirà: che male c’è a dettar norme sovrabbondanti? Repetita iuvant. Purtroppo non è così. Gli studiosi di sociologia e di nomopoietica da tempo ci hanno spiegato quali effetti immancabilmente produca la iperproduzione normativa. Sul piano sociale, essa suscita incertezza in chi deve osservare la legge, dubbioso su quale, tra tante, sia la norma da applicare: e l’incertezza, ovviamente, aumenta il rischio di inosservanza della legge.
Sul piano più strettamente giuridico, ci ha insegnato Montesquieu che quando le leggi non sono « poche, chiare e semplici»:
a) cresce il contenzioso giudiziario;
b) diminuisce la loro forza cogente;
c) frena l’iniziativa economica e le transazioni commerciali in generale.
Il che è esattamente quanto avvenuto, ad esempio, per effetto dell’art. 42, comma 2, del d.l. 17 marzo 2020, n. 18. La legge ha esteso la copertura dell’assicuratore sociale ai contagi avvenuti in occasione di lavoro, ma l’ha fatto in termini da tali da suscitare (inutili) allarmismi tra datori di lavoro ed assicuratori privati, e fors’anche (infondati) appetiti di nuovi affari in hungries lawyers senza scrupoli. Ed infatti modificare l’estensione della copertura assicurativa prestata dall’INAIL è scelta normativa che lascia intoccate le regole della responsabilità civile in generale e di quella datoriale in particolare. Una modifica, dunque, che non ha affatto per conseguenza necessaria l’estensione della responsabilità civile del datore di lavoro, rispetto ai generali princìpi dettati dall’art. 2087 c.c.
Certo, ogni ordinamento civile ed avanzato ha in sé gli strumenti per garantire l’uniforme interpretazione del diritto: scopo che nel nostro ordinamento è attribuito alla Corte di cassazione. Ma, purtroppo, proprio qui sta il problema nel problema.
Piero Calamandrei esattamente individuò un duplice ruolo spettante alla Corte di cassazione negli stati moderni: una giurisdizione successiva, ovvero il compito di decidere – non altrimenti da qualunque altro organo giudiziario – sulla singola lite; ed una giurisdizione preventiva o di orientamento, vale a dire il compito di stabilire quale debba essere la corretta interpretazione delle norme ambigue. In modo da prevenire le incertezze e, con esse, le liti giudiziarie.
Tuttavia non è un mistero che, ormai da anni, la funzione preventiva o nomofilattica che dir si voglia della Corte di cassazione si è venuta sempre più assottigliando, in conseguenza di scelte normative (o, talora, omissioni normative) che hanno avuto l’ effetto di aumentare l’entropia del sistema.
Naturalmente il degrado della Corte di cassazione, da organo che deve assicurare l’ uniforme interpretazione della legge a giudice di ultima istanza, assediato da 40.000 ricorsi l’anno, ha provocato ulteriori effetti di rimbalzo, come la crescita dei contrasti interpretativi in seno alla stessa giurisprudenza di legittimità. Solo per fare un esempio: la Corte Suprema U.S.A. è composta da nove giudici mentre la Corte di cassazione italiana da circa 300. Con un numero di giudicanti così elevato i contrasti finiscono per essere inevitabili.
Le oscillazioni della giurisprudenza di legittimità, a sua volta, allentano ulteriormente il già blando vincolo tra giurisprudenza di legittimità e giurisprudenza di merito. I giudici di merito, infatti, dinanzi alle incertezze della Suprema Corte giustamente si ritengono liberi di scegliere l’opzione interpretativa che più loro aggrada, e questo a sua volta alimenta e fomenta i contrasti giurisprudenziali.
Non posso purtroppo ulteriormente approfondire in questa sede un tema così vasto e complesso, ma il punto d’approdo è il seguente:
Un ordinamento giuridico che avesse un sistema giudiziario inefficiente, ma un legislatore con la stoffa di Clìstene, eviterebbe il contenzioso giudiziario prevenendolo. Specularmente, un ordinamento giuridico che avesse un legislatore logorroico, ma un efficiente sistema giudiziario, gestirebbe col secondo le incertezze suscitate dal primo. In questo caso i dubbi degli interpreti sarebbero solo iniziali e transitori.
Ci sono poi ordinamenti giuridici, come il nostro, nel quale produzioni normative pletoriche e alluvionali impattano su un sistema giudiziario nel quale la funzione di indirizzo e controllo tradizionalmente spettante alla Corte di cassazione è stata largamente depotenziata. In un contesto di questo tipo è facile intuire come i contrasti suscitati da norme ambigue potranno essere composti a livello giurisprudenziale solo dopo molti anni, e comunque lasciandosi alle spalle un sentiero disseminato di cadaveri.