Sono le stime 2019 del rapporto Rbm-Censis presentato ieri al Welfare Day. Un italiano su tre è costretto a pagare di tasca propria per via delle lunghe liste d’attesa. Vecchietti (Rbm) rilancia l’idea di un secondo pilastro a fianco del servizio nazionale
di Anna Messia
Sono 19,6 milioni gli italiani che nell’ultimo anno, per almeno una prestazione sanitaria, hanno provato a prenotare nel Servizio sanitario nazionale e a causa dei lunghi tempi d’attesa si sono poi rivolti alla sanità a pagamento, privata o intramoenia. Il dato emerge dal IX Rapporto Rbm-Censis sulla sanità pubblica, privata e intermediata, presentato ieri al Welfare Day 2019. La ricerca è stata fatta su un campione di 10 mila cittadini maggiorenni statisticamente rappresentativo della popolazione. «Nel 2019 quasi un italiano su due, per la precisione il 44% della popolazione, si è rassegnato a pagare personalmente di tasca propria le prestazioni sanitarie senza neanche provare a prenotare attraverso il Servizio sanitario nazionale, a prescindere dal proprio livello di reddito», ha dichiarato l’amministratore delegato e direttore generale di Rbm Assicurazione Salute, Marco Vecchietti. La spesa sanitaria privata si attesta oggi a 37,3 miliardi e si stima che nel 2019 possa arrivare quasi al di sotto dei 42 miliardi di euro: +7,3% dal 2014 a causa soprattutto dell’allungamento dei tempi di attesa. Dall’indagine emerge che i forzati della sanità di tasca propria pagano a causa di un Servizio sanitario che non riesce più a erogare in tempi adeguati prestazioni incluse nei Lea (Livelli Essenziali di Assistenza) e prescritte dai medici», si legge nell’indagine.
Il 62% di chi ha effettuato almeno una prestazione sanitaria nel sistema pubblico ne ha effettuata almeno un’altra nella sanità a pagamento: il 56,7% delle persone con redditi bassi, il 68,9% di chi ha redditi alti. In 28 casi su 100 i cittadini, visto che i tempi d’attesa sono eccessivi o trovate le liste chiuse, hanno scelto di effettuare le prestazioni a pagamento (il 22,6% nel Nordovest, il 20,7% nel Nordest, il 31,6% al Centro e il 33,2% al Sud). Transitano nella sanità a pagamento il 36,7% dei tentativi falliti di prenotare visite specialistiche (il 39,2% al Centro e il 42,4% al Sud) e il 24,8% dei tentativi di prenotazione di accertamenti diagnostici (il 30,7% al Centro e il 29,2% al Sud). I Lea, a cui si ha diritto sulla carta, in realtà sono in gran parte negati a causa delle difficoltà di accesso alla sanità pubblica. «Occorre pianificare un veloce passaggio da una sanità integrativa a disposizione di pochi (circa 14 milioni di italiani hanno una polizza sanitaria, ndr) ad una sanità integrativa diffusa, un vero e proprio welfare di cittadinanza», suggerisce Vecchietti, aggiungendo che per farlo «serve un secondo pilastro sanitario aperto che si affianchi al servizio sanitario nazionale». Dall’indagine del Censis emergono liste d’attesa lunghe o addirittura invalicabili. In media, 128 giorni d’attesa per una visita endocrinologica, 114 giorni per una diabetologica, 65 giorni per una oncologica, 58 giorni per una neurologica, 57 giorni per una gastroenterologica, 56 giorni per una visita oculistica. E nell’ultimo anno il 35,8% degli italiani non è riuscito a prenotare, almeno una volta, una prestazione nel sistema pubblico perché ha trovato le liste d’attesa chiuse. «La sanità integrativa, fondi e polizze sono in grado di garantire un aiuto concreto per cittadini e famiglie di fronte al contante innalzamento dei bisogni di cura. Un sistema che ha dimostrato di funzionare piuttosto bene per chi lo ha già», conclude Vecchietti. «A questo punto sarebbe normale immaginare politiche da parte del governo a supporto della diffusione di questi strumenti». (riproduzione riservata)
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