di Irene Elisei
«Abbiamo capito che la bance sarebbe andata in risoluzione appena due giorni prima della data fatidica del 22 novembre 2015», esordisce così Luciano Goffi, che da amministratore delegato ha guidato Nuova Banca Marche prima del suo approdo tra le braccia di Ubi Banca . «Fino ad allora Banca delle Marche aveva lavorato insieme a Banca d’Italia su altre ipotesi: si è provato a portare avanti il progetto d’intervento del Fondo di Garanzia dei Depositi, che aveva fatto anche una parte della due diligence. Quella via fu poi preclusa dalla Commissione Europea perché giudicata non coerente alle normative sugli aiuti di Stato. La risoluzione a quel punto fu l’unica strada possibile per evitare epiloghi peggiori. Da un lato, permise l’azzeramento del deficit e una forte ricapitalizzazione, quindi la salvezza della banca. Dall’altro lato fu però subito evidente la penalizzazione per tutti i soci e i detentori di obbligazioni subordinate», aggiunge Goffi che insieme agli amministratori delegati delle altre tre good bank ha fatto un po’ da cavia all’applicazione del bail-in e che in questa intervista ripercorre la crisi della banca, la sua agonia e la sua ripartenza dopo la risoluzione.
Domanda. Tra gli obbligazionisti c’è chi ha visto azzerato quello che aveva investito nella banca. Alcuni hanno optato per un indennizzo forfettario, altri ricorreranno all’arbitrato. Quante possibilità ci sono che vengano rimborsati?
R. La maggior parte dei nostri obbligazionisti è rientrata nei parametri previsti del rimborso forfettario: circa l’80% di loro ha ottenuto o sta ottenendo il rimborso. Dire, invece, che coloro che ricorreranno all’arbitrato hanno alte percentuali di successo è azzardato. In Banca delle Marche le obbligazioni erano state collocate tra il 2007 e il 2008, in un contesto regolamentare di mercato che oggi rende obbiettivamente più difficile a un arbitro stabilire una situazione di mis-selling o di non regolare negoziazione di quei titoli. Sulla correttezza del collocamento io non ho dubbi, salvo errori specifici. Diverso è il discorso dell’aumento di capitale che la banca fece nel marzo del 2012 quando, obbiettivamente, gli avvertimenti della Banca d’Italia avrebbero dovuto indurre i dirigenti di allora a essere più prudenti nel chiamare i soci a seguire una ricapitalizzazione.
D. Gli anni di mala gestio a cui si sono sommati i danni della crisi economica hanno creato un mix mortifero. Nel caso di Banca delle Marche fu tutta colpa del vecchio management o la mala gestio dell’ex direttore generale Massimo Bianconi era solo la punta dell’iceberg?
R. Fino al 2005 l’istituto ha goduto di buona salute: si procedeva magari non con grandissime performance, ma con un ottimo equilibrio tra patrimonio e attività finanziarie. Con il cambio della direzione si optò per una strategia aggressiva, che portò la banca quasi a raddoppiare gli impieghi in pochissimi anni, dal 2005 al 2011. Purtroppo questa forte crescita venne accompagnata da un’alta concentrazione del profilo di rischio sul settore immobiliare e su soggetti con esposizioni consistenti. Abbandonare la strada della sana e prudente gestione ha reso la banca vulnerabile alla crisi che è venuta di lì a poco. Ci sono state situazioni gestionali di malversazione che io ho denunciato alla procura, certo, ma l’errore di fondo è stato quello di alzare il profilo di rischio non prevedendo l’inversione del ciclo economico che ci ha trovato inermi.
D. L’azione di responsabilità è stata mossa dai commissari per atti di malversazione dissimulati a partire dal 2006. La Banca d’Italia però ha chiesto l’allontanamento di Bianconi solo nel 2012.
R. Sarebbe servito maggiore coraggio. Banca d’Italia avrebbe potuto commissariare prima BdM? Io credo di sì. Era una decisione non facile da prendere: si trattava di interrompere l’operatività di una banca che per l’economia locale aveva un ruolo non banale. La Vigilanza si è limitata a dare degli avvertimenti al cda. Dal 2006 vennero rilasciati verbali ispettivi che definivano il crescente profilo di rischio che la banca stava assumendo, sia dal punto di vista della concentrazione che della debolezza dei sistemi di controllo. Gli avvertimenti erano stati anche chiari e forti, ma all’epoca la Vigilanza non aveva gli strumenti che ha oggi con la Brrd che le consentono azioni più efficaci. Va anche detto che se il cda e la direzione avessero accolto adeguatamente quelle segnalazioni il percorso avrebbe potuto essere invertito.
D. Arriviamo al bail in. Roberto Nicastro, che è stato presidente delle 4 good bank, vi ha definito cavie della riforma sul salvataggio bancario.
R. È una definizione corretta, perché siamo stati in Europa il primo caso importante della riforma bancaria europea. E direi però, con un pizzico di orgoglio, il primo esperimento a essersi chiuso positivamente: di questo siamo piuttosto orgogliosi. Devo anche ammettere di non essermi mai sentito solo in questo ultimo anno e mezzo di banca ponte, grazie anzitutto a un presidente straordinario come Nicastro, che ha svolto un ruolo insostituibile. Ho visto inoltre un forte impegno da parte del personale della banca: è stata una battaglia dura e lunga, ma i colleghi non si sono mai risparmiati.
D. Secondo lei il governo ha messo in guardia per tempo il sistema bancario e quindi i risparmiatori sulle conseguenze del bail in?
R. La Brrd è stata recepita con un certo ritardo rispetto all’entrata in vigore nel resto d’Europa, almeno un anno dopo. Saremmo certamente arrivati più preparati se il governo si fosse mosso prima. Del bail in c’è però una norma su tutte da criticare, e a mio parere da correggere: la retroattività di certe misure di intervento sugli stakeholder. Mi riferisco, in particolare, agli obbligazionisti subordinati che hanno visto azzerato il loro investimento anche se sottoscritto molto tempo prima. Noi siamo stati cavie perchè abbiamo dovuto gestire l’istituto nella fase di banca ponte facendo i conti con un mercato che si è riscoperto vulnerabile sul tema della sicurezza dei depositi e ha perso la fiducia, non ancora ritrovata, nel sistema bancario.
D. Prima del closing con Ubi avete ceduto una grossa fetta di npl ad Atlante 2 per oltre il 30% del loro valore. Soddisfatti?
R. Sì. Atlante è nato con l’obiettivo di calmierare il mercato dei non performing loan ed evitare un abbattimento dei prezzi. Il fatto che nel nostro caso si sia fatta la cessione al 32.5% del prezzo testimonia come il fondo in parte abbia conseguito il proprio obiettivo.
D. Il tema dei prezzi degli npl è caldo. Le autorità Ue chiedono alle banche italiane di cederli quanto prima, ma avere necessità di vendere a stretto giro comporta inevitabilmente una svalutazione ulteriore. Come se ne esce?
R. Il tema sta nella quantità di patrimonio. Conviene sicuramente gestire gli npl tramite il personale interno alla banca e avvalersi di collaborazioni esterne. Ma si può fare a patto che il patrimonio sia sufficiente a coprire la quota di capitale assorbito dalla parte di attivo non performante. Non a caso, le banche più grandi e più capitalizzate non fanno massicce cessioni. Il problema emerge quando la banca è debole da un punto di vista patrimoniale: in quel caso nessuno è disponibile a ricapitalizzarla se al suo interno ha anche npl, nessuno è disposto a comprarla se non a sconto spaventoso. A quel punto non si ha scelta e si è costretti a cederli per dare una prospettiva alla banca.
D. Le banche più piccole che non hanno patrimonio sufficiente potrebbero beneficiare della creazione di una bad bank di sistema?
R. Il rimpianto per la mancata creazione a suo tempo di una bad bank di sistema, realizzata ad esempio in Spagna e in altri Paesi, è vivo. Sarebbe stata la soluzione ottimale per evitare un mercato esasperato. A questo punto bisogna guardare con freddezza al contesto e cercare di fare le operazioni necessarie. Con Atlante si è fatto un primo tentativo, riuscito solo in parte. Se il fondo avesse avuto la disponibilità di mezzi preventivamente ipotizzata, cioè i 7 miliardi di euro annunciati invece dei 4 sottoscritti e gran parte dei quali poi impiegati per salvare le banche venete, il mercato degli npl oggi sarebbe molto più calmierato.
D. Il futuro di Banca Marche, che ha già cambiato nome ed è diventata Banca Adriatica, è all’interno di un grande gruppo lombardo come Ubi. Si può preservare il valore di essere banca del territorio anche se si viene acquistati da realtà lontane dalla vostra tradizione?
R. Credo di sì, Ubi viene da una storia di sette aggregazioni che diventano 10 con le tre good bank appena acquistate. È una banca cresciuta mantenendo anche autonomie locali, addirittura dei marchi locali fino a pochi mesi fa. L’Italia non è un Paese preparato ad avere solo grandi banche d’affari, ma ha bisogno di banche retail capaci di parlare i diversi dialetti dei luoghi. (riproduzione riservata)
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