di Antonio Lusardi
L’Italia non deve temere troppo la Brexit, almeno secondo Standard & Poor’s. Nell’Indice di Vulnerabilità alla Brexit (Bsi), appena elaborato dall’agenzia di rating, il nostro Paese si classifica al 19° posto, tra gli ultimi dell’Eurozona e al di sotto delle altre maggiori economie del Vecchio Continente, ossia Germania, Francia e Spagna. Gli unici a potersi preoccupare meno di noi, secondo S&P, sono gli austriaci. Lo studio (effettuato su dati 2015) prende in considerazione quattro fattori di rischio, espressi su una scala da 0 a 1: rischi per l’export, per il settore finanziario, per gli investimenti diretti e per la migrazione.
La ridotta vulnerabilità italiana, appena 0,4 punti totali, viene quasi interamente dall’export e dai rischi finanziari. Le esportazioni delle aziende tricolore nel Regno Unito valgono l’1,6% del pil, valore inferiore al 2,8% tedesco o al 2,7 della Spagna. Più consistente l’esposizione del settore finanziario: il totale di valore degli asset a rischio in caso di Brexit è pari al 13,2% del pil, maggiore rispetto ai cugini francesi (10,6%), ma comunque inferiore a Germania (22,7%) e soprattutto alla Spagna (44,9%). S&P vede poi come quasi trascurabili i rischi sugli investimenti diretti italiani Oltremanica (appena lo 0,2% del pil) e sugli emigrati a Londra e dintorni (la migrazione bidirezionale si ferma allo 0,4% della popolazione).
Come accennato, le altre principali economie dell’area euro sarebbero più sensibili a un’eventuale Brexit. Sia la Francia sia la Germania totalizzano uno 0,8 sulla scala del rischio. Parigi sarebbe più vulnerabile sul fronte degli investimenti diretti, mentre Berlino sconta interessi finanziari e un export più consistenti. Entrambi i Paesi sono comunque, secondo S&P, sotto il livello d’allarme.
Più complessa la situazione della Spagna. Madrid raggiunge infatti 1,5 punti sulla scala Bsi, soprattutto per l’esposizione finanziaria e per i consistenti investimenti diretti. Circa sullo stesso livello si piazzano Belgio e Olanda, entrambi esposti sui fronti dell’export e degli investimenti diretti.
A doversi davvero preoccupare in vista del voto del 23 giugno è però, neanche a dirlo, la vicina di casa del Regno Unito, ossia l’Irlanda. Dublino ricava oltre il 10% del suo prodotto interno lordo dall’export verso i vicini inglesi e, come è facile immaginare, vede grandi interessi finanziari e investimenti. L’immigrazione in entrata e uscita poi riguarda l’equivalente del 17,2% della popolazione irlandese. Anche altri partner storici (ed ex possedimenti) di Londra, come Malta e Cipro, sono visti da S&P come fortemente minacciati dalla Brexit, ma le piccole dimensioni delle loro economie scongiurano possibili contagi sistemici.
Complessa anche la situazione di Lussemburgo e Svizzera, rispettivamente terzo e quinto Paese nella classifica del rischio, a causa della loro natura di centri finanziari che li espone enormemente. Gli asset svizzeri minacciati arrivano al 65,1% del pil, quelli lussemburghesi addirittura al 73,3%. Entrambi poi hanno investimenti diretti Oltremanica per il 6% dei rispettivi pil. Ultima nota: la classifica a sorpresa comprende due Paesi non Ue: il Canada (poco esposto, al livello italiano) e la Norvegia, le cui esportazioni di petrolio e gas nel Regno Unito valgono il 7,4% del pil. (riproduzione riservata)
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