di Anna Messia
Una notizia positiva e una negativa. La prima è che, a sorpresa, non sono pochi i lavoratori italiani che possono fare affidamento su un fondo sanitario nel caso in cui si trovino ad affrontare una spesa medica. Il 57% dei dipendenti aderisce infatti a una forma sanitaria integrativa e un italiano su cinque (18%) ha un fondo o una polizza.
Una percentuale che è più o meno in linea con il resto dell’Europa (21%), e meglio del Regno Unito (16%), per fare un esempio. Ma le buone novità si fermano qui. Perché se si analizzano i dati in dettaglio, come fatto nella ricerca appena pubblicata da Rbm Salute e dal Censis, presentata a Roma il 9 giugno in occasione del Welfare Day, si scopre che gli italiani hanno decisamente coperture più blande e continuano a pagare di tasca propria gran parte delle cure private a cui ricorrono. Il livello di spesa privata intermediata dalle forme sanitarie integrative italiane è infatti inferiore di oltre il 30% rispetto alla media dell’Unione Europea.
Nel 2013 la spesa sanitaria privata dei cittadini ha raggiunto i 26,9 miliardi. Il che significa che ogni persona ha speso in media 485 euro l’anno per curarsi privatamente, senza utilizzare il servizio pubblico. Dei quasi 27 miliardi di euro solo il 15% è stato intermediato da fondi sanitari, facendo inevitabilmente aumentare l’esborso e la spesa nel 2014 sarebbe salita, secondo le prime stime, a 32 miliardi. Non solo perché gli iscritti sono ancora pochi, specie tra i lavoratori autonomi che hanno un tasso di adesione di appena il 14%. Ma anche perché sono tante le spese che restano fuori, anche per chi un fondo sanitario già ce l’ha. «Dalla ricerca sono emerse importati indicazioni in merito all’effettività delle prestazioni garantite dai fondi e alla necessità di incrementare i livelli di assistenza garantiti ai lavoratori per ottenere livelli di intermediazione della spesa sanitaria privata in linea con la media degli altri Paesi europei», osserva Marco Vecchietti, amministratore delegato di Rbm Salute.
Il rischio concreto è che l’attuale strutturazione del mercato crei illusioni ai lavoratori, che scoprono di non avere coperture adeguate nel momento del bisogno. Se si considerano per esempio le prestazioni ospedaliere dalla ricerca emerge che il 39% delle forme sanitarie integrative copre i grandi interventi e alcuni ricoveri e solo il 26% dei fondi copre tutti i tipi di ricoveri. Riguardo ai grandi interventi c’è poi da sottolineare che il 73% di quelli assicurati dalle forme pensionistiche integrative è effettuabile solo in strutture del Servizio sanitario nazionale, a causa della gravità delle patologie che non consente di fatto l’utilizzo di case di cura private. «In questo modo l’unico rimborso che gli assicurati riescono a ottenere è quello della diaria da ricovero», osserva Vecchietti, «ovvero in media 70 euro al giorno e 350-400 euro per l’intero intervento». Un problema che si ripropone anche per altri tipi di spese. Nel caso delle visite specialistiche tutte le forme sanitarie integrative create in base a contratti di lavoro nazionali prevedono il rimborso a seguito del sospetto di una malattia. Ma sono praticamente escluse (per la precisione nel 96% dei casi) le visite di routine o di controllo. «Sono fortemente limitate anche le visite pediatriche, ammesse nell’8% dei casi, e le visite psichiatriche, coperte appena nel 13% dei casi», osserva il numero uno di Rbm. Nell’area delle visite specialistiche l’importo medio speso dai cittadini è in particolare di 222,11 euro, mentre quello liquidato dalle forme sanitarie integrative di origine contrattuale è di 56,66 euro, con un importo medio non intermediato dai fondi pari a 165,45 euro.
Un problema di coperture inadeguate che, con un parallelo, assomiglia molto alle carenze che rischiano di registrarsi nel settore della previdenza complementare, dove le pensioni di scorta, specie per chi ha iniziato a lavorare tardi o a singhiozzo, potrebbero rivelarsi troppo esigue. «Nel caso della previdenza integrativa la difficoltà del settore è riuscire a creare montanti previdenziali adeguati», osserva Vecchietti, «altrimenti la missione della previdenza complementare, chiamata a rimpinguare adeguatamente una pensione pubblica più magra, potrebbe fallire». E a ben vedere le due questioni, quelle di una previdenza integrativa adeguata e di una sanità integrativa efficiente, sono strettamente interconnesse tra di loro. «Le nostre analisi hanno rivelato che l’adeguatezza della rendita pensionistica si può raggiungere solo se sia aderisce subito e se non si interrompe l’accumulazione», aggiunge il numero uno di Rbm.
Tra i principali motivi di interruzione dei versamenti e di richieste di anticipazione ci sono proprio le richieste legate a spese sanitarie, per il 25% dei casi, o a invalidità, inabilità e spese catastrofali dei nuclei familiari, per il 62% dei casi. Come dire che disporre di un fondo sanitario adeguato ed efficiente potrebbe spesso evitare al lavoratore di dover chiedere anticipazioni al proprio fondo previdenziale integrativo per far fronte alle spese, sgonfiando di conseguenza la pensione di scorta. «La soluzione potrebbe arrivare da integrazioni ai fondi sanitari e ai fondi pensione per migliorare le prestazioni, aggiungendo per questi ultimi anche coperture assicurative in caso di perdita di lavoro», conclude Vecchietti. «Non si tratterebbe di una spesa elevata. Se fatta in maniera collettiva l’integrazione delle prestazioni erogate dai fondi sanitari potrebbe valere 50-70 euro l’anno e per la perdita di lavoro le tariffe sono comprese tra uno 0,5 e l’1% della retribuzione annua». (riproduzione riservata)