Per dare soluzione a questo problema, sono necessarie alcune puntualizzazioni.
Sotto un primo profilo, deve sottolinearsi che allorché l’evento di danno sia imputabile a più fatti colposi che, in vario modo, vi concorrono, dando luogo a responsabilità per fatto illecito dei loro autori, il danneggiato non ha l’onere di chiamarli in causa tutti; e ciò perché l’eventuale accertamento del concorso di altri responsabili oltre il convenuto – per il principio di solidarietà nella responsabilità – rende possibile che l’unico convenuto sia condannato per l’intero.
È il convenuto, viceversa, che ha interesse a vedere accertato, nel medesimo giudizio, che egli non è responsabile perché, ad esempio, il fatto a lui addebitato non ha avuto incidenza causale, essendo stato superato da un altro, produttivo questo dell’evento.
E questo interesse è fatto valere con la chiamata in causa del terzo, che è indicato dal convenuto come unico responsabile, ma che potrebbe risultare accertato che, invece, è solo un altro responsabile.
Il fatto che in ipotesi di chiamata del terzo indicato dal convenuto quale unico responsabile – anche in mancanza di un’espressa estensione della domanda proposta dall’attore nei confronti del chiamato – quest’ultimo possa essere dichiarato unico soggetto passivo dell’obbligazione risarcitoria dedotta in giudizio è dovuto al tenore della domanda originariamente proposta, con la quale è stata dedotta in giudizio appunto quella obbligazione.
Le medesime ragioni valgono anche in ipotesi di co-responsabilità.
In questo caso, a escludere l’estensione automatica della domanda, può essere soltanto l’attore dichiarando di non volerla estendere al chiamato; diversamente, non si spiegherebbe il perché dovrebbe essere accollata all’attore la responsabilità processuale verso un chiamato che non ritiene responsabile e che, proprio per tale ragione, non ha convenuto in giudizio.
In altri termini: la diversità del fatto accertato come causa dell’evento, rispetto a quello originario indicato come causa del danno, non determina mutamento dell’obbligazione e, quindi, dell’oggetto della domanda; diversamente, la vicenda, sul piano processuale, non troverebbe giustificazione.
Ad eguale conclusione, allora, deve ritenersi possibile pervenire anche quando il convenuto abbia chiamato in giudizio il terzo solo come “altro” autore colpevole del fatto, o quando sia questo ad essere accertato.
Tirando le fila del discorso, può rispondersi al quesito enunciando il seguente principio: nell’ipotesi in cui due soggetti concorrono a causare un evento di danno con distinti comportamenti colposi, la responsabilità da fatto illecito dà luogo a un’obbligazione in cui la ragione della domanda non è data da ciascun fatto concreto che determina l’evento, ma da tutti i possibili fatti riconducibili al medesimo titolo di responsabilità che hanno concorso a determinare il danno
Nell’ipotesi in cui l’area sulla quale sono eseguiti i lavori – e quindi insiste il cantiere – risulti ancora adibita al traffico e, quindi, utilizzata a fini di circolazione, questa situazione denota la conservazione della custodia da parte dell’ente titolare della strada, sia pure insieme all’appaltatore, alla quale consegue che la responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c. – sussiste, sia a carico dell’appaltatore, sia dell’ente, salva l’eventuale azione di regresso di quest’ultimo nei confronti del primo, a norma dei comuni principi sulla responsabilità solidale di cui al secondo comma dell’art. 2055 cod. civ., sulla base anche degli obblighi di segnalazione e manutenzione imposti dalla legge per opere e depositi stradali (art. 21 del d.lgs. n. 285 del 1992), nonché di quelli eventualmente discendenti dalla convenzione di appalto.
Ciò vuol dire che – indipendentemente dal rapporto di appalto – se il bene continua ad essere destinato all’uso precedente come, appunto, nel caso in cui la strada resti aperta al pubblico transito di persone e veicoli, permanendo la custodia anche in capo all’ente proprietario, quest’ultimo è chiamato a rispondere, unitamente all’appaltatore, degli eventuali danni a terzi.
Nei sinistri derivanti dalla circolazione stradale, l’apprezzamento del giudice di merito relativo alla ricostruzione della dinamica dell’incidente, all’accertamento della condotta dei conducenti dei veicoli, alla sussistenza o meno della colpa dei soggetti coinvolti e alla loro eventuale graduazione, al pari dell’accertamento dell’esistenza o dell’esclusione del rapporto di causalità tra i comportamenti dei singoli soggetti e l’evento dannoso, si concreta in un giudizio di mero fatto, che resta sottratto al sindacato di legittimità, qualora il ragionamento posto a base delle conclusioni sia caratterizzato da completezza, correttezza e coerenza dal punto di vista logico-giuridico – come nella specie -, e ciò anche per quanto concerne il punto specifico se il conducente di uno dei veicoli abbia fornito la prova liberatoria di cui all’art. 2054 c.c.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, 19 marzo 2015 n. 5483