Pagina a cura di Sibilla Di Palma  

 

«Il destino di un uomo è nel suo carattere», scriveva il filosofo Menandro. E oggi si potrebbe aggiungere: «E nella sua reputazione». Perché nell’era del web 2.0 e dei social media in cui tutto viene diffuso e condiviso il successo o l’insuccesso del singolo, ma anche delle organizzazioni, passa in buon parte anche attraverso la Rete.

Con i dipendenti delle aziende che svolgono un ruolo sempre più strategico sul fronte della brand reputation presso i consumatori.

 

Lavoratori sempre più attivi sul web. Secondo l’indagine «Employees rising: seizing the opportunity in employee activism» condotta da Weber Shandwick in partnership con Krc Research, basata su un sondaggio online che ha coinvolto un campione di 2.300 dipendenti d’azienda di 15 diversi paesi del mondo, in Europa quasi uno su cinque è un dipendente attivo, mentre un buon 32% ha un grosso potenziale nel poterlo diventare. La maggior parte dei dipendenti attivi, inoltre, dà visibilità al proprio posto di lavoro, difende la propria organizzazione dalle critiche esterne e si comporta come un vero e proprio advocate, sia online sia offline. Dando uno sguardo alla ricerca più nel dettaglio, il 43% degli intervistati pubblica sui social messaggi, foto o video inerenti all’azienda per cui lavora e il 33% ha condiviso un commento positivo sulla propria società. «Il fenomeno dei dipendenti attivi non deve essere sottovalutato», afferma Leslie Gaines-Ross, chief reputation strategist di Weber Shandwick. «È molto importante per i ceo identificare e riuscire ad attivare tutti coloro che mostrano già una certa predisposizione ad appoggiare l’organizzazione per cui lavorano». Alcune aziende si sono infatti incamminate su questo trend, considerato che in Europa il 24% delle imprese incentiva il proprio staff a pubblicare e a condividere sui social notizie inerenti il proprio posto di lavoro. Una forma di incoraggiamento che ha un forte impatto in termini di advocacy tra i dipendenti. Le persone che lavorano per compagnie che incoraggiano la condivisione sui social sono infatti più propense (+51%) a consigliare ad altri i prodotti o i servizi dell’azienda stessa.

Un fenomeno in cui comunque non mancano le zone d’ombra: in base alla ricerca, infatti, l’11% dei dipendenti ha condiviso online critiche o commenti negativi sulla propria società e il 10% ha pubblicato online qualcosa sull’azienda, di cui poi si è pentito.

 

Il rischio di bad advocate. Il rischio dunque è che, se non monitorati e ricondotti all’interno di una precisa strategia aziendale, gli interventi dei dipendenti sui social network possano rivelarsi dannosi per il brand.

Non a caso, un dipendente Apple nel Regno Unito è stato licenziato dopo aver criticato l’azienda sul proprio account Facebook. «I dipendenti hanno la possibilità di esprimere tramite il web e i social network delle opinioni rispetto all’organizzazione per cui lavorano. Molte aziende però mostrano ancora scarsa sensibilità su questo tema senza rendersi pienamente conto dell’impatto che tutto ciò può avere sulla reputazione aziendale», osserva Antonio De Nardis, digital strategist e reputation coach, nonché relatore del corso «Reputation Day» organizzato dalla The European House-Ambrosetti.

Una mancanza di cultura e di formazione sul tema sottolineata anche da Andrea Barchiesi, ceo di reputation manager, società specializzata nella consulenza sulla reputazione on line. «C’è una forte asimmetria tra rischio e opportunità se i dipendenti non hanno seguito un corso educativo sui social media, ma sono stati repressi da questo punto di vista. Se ad esempio un lavoratore esprime nel suo account Twitter pareri o opinioni che vanno contro la linea stabilita dall’azienda è un disastro». La strada sarebbe invece di procedere con la formazione mirata dei dipendenti per «sensibilizzarli sulle opportunità e i rischi di una comunicazione non appropriata sul web», specifica De Nardis. Insieme alla creazione di una social media policy, «che stabilisca cioè delle regole di comportamento su ciò che i dipendenti possono o non possono fare attraverso i social e che allo stesso tempo fornisca delle linee guida per consentire ai lavoratori di gestire al meglio la conversazione sui social network». Ed evitare in questo modo eventuali effetti boomerang, come accaduto più volte negli Stati Uniti dove i lavoratori di alcune società si sono assunti il ruolo di paladini del brand aziendale contro le critiche dei consumatori senza avere una conoscenza del prodotto o del servizio sufficiente per poter smentire in maniera efficace le critiche. «All’interno delle aziende ci sono inoltre tanti talenti dotati di notevoli capacità sociali e che condividono con entusiasmo i valori aziendali. Questi ultimi vanno identificati, stimolati, coinvolti e valorizzati in modo da far emergere questo entusiasmo verso l’esterno», commenta Barchiesi.

 

I casi aziendali. Tra le aziende che si sono mostrate sensibili al tema spicca Starbucks che utilizza principalmente quattro social media per la propria comunicazione online (Facebook, Twitter, Youtube e Flickr) e ha lanciato un blog chiamato «Ideas in Action» dove i dipendenti della catena raccontano come mettono in pratica le idee dei clienti, in modo da sviluppare nei consumatori un senso di appartenenza con l’azienda. Mentre Tnt ha elaborato una social media policy aziendale con delle linee guida rivolte ai dipendenti per evitare «incidenti» nell’ambito delle proprie attività personali sui social media. Stesso discorso per Samsung che ha lanciato delle linee guida per i dipendenti in materia di social network, oltre a gruppi di advocates che hanno il compito di fornire supporto e sostegno ai dipendenti nella gestione delle tematiche aziendali online.

Dell ha invece lanciato la Social Media and Community University che prevede corsi indirizzati a tutti i dipendenti che puntano a istruirli sulla social media strategy aziendale e su come utilizzare i canali social per fidelizzare al meglio i clienti. Anche Adecco opera attraverso la formazione dei dipendenti su come gestire i social network. «Abbiamo inoltre sviluppato un programma interno di advocacy con cui puntiamo a individuare le persone in grado per abilità personali di propagare all’esterno in maniera positiva il nostro messaggio», afferma Silvia Zanella, global social media and online marketing director Adecco Group. Il tema è ancora agli albori in Italia, ma inizia a prendere piede anche tra le aziende Made in Italy, come dimostra il caso Amadori che utilizza Linkedin come strumento di ricerca del personale e nel 2011 ha sviluppato delle linee guida «divulgate attraverso la Intranet e le bacheche aziendali con l’obiettivo di generare consapevolezza tra i dipendenti sull’impatto che possono avere i social media per il business aziendale», conclude Fabio Barnabè, responsabile gestione e sviluppo risorse umane del gruppo.