di Roberta Castellarin e Paola Valentini

Le pensioni sono solo un peso per i conti dello Stato o una risorsa per il Paese? La risposta la dà il Libro bianco sulle pensioni approvato nei giorni scorsi dal Parlamento europeo. Che segna una svolta nell’approccio avuto finora nei confronti dei sistemi previdenziali. Perché anche in questo caso un’austerity ottusa non porta molto lontano.

Anzi può avere gravi conseguenze.

 

Nella risoluzione del Parlamento che a fine maggio ha approvato il testo della Commissione ci sono diversi passaggi che fanno intuire il cambiamento in corso. Si legge infatti che «i sistemi pensionistici sono una componente essenziale dei modelli sociali europei, il cui obiettivo fondamentale e non negoziabile è quello di garantire un livello di vita dignitoso agli anziani». Non solo. Aggiunge la risoluzione: «La sostenibilità della politica in materia di pensioni va oltre le considerazioni di bilancio e che anche i livelli di risparmio privato, i tassi di occupazione e gli sviluppi demografici previsti svolgono un ruolo significativo nel garantire la sostenibilità». Sempre sul fronte dell’eccessiva austerità si sottolinea che: «nell’attuale dibattito europeo i regimi pensionistici sono troppo spesso percepiti come un mero peso sulle finanze pubbliche anziché come strumenti essenziali per contrastare la povertà degli anziani e consentire una ridistribuzione nel corso della vita di un individuo e in tutta la società».

Tanto più che i pensionati non sono un peso per l’economia dei Paesi Ue, ma anzi possono rappresentare una risorsa. Si ricorda infatti che «i pensionati costituiscono un gruppo di consumatori particolarmente importante e la variazione del loro comportamento di spesa incide notevolmente sull’economia reale».

Pensionati poveri si traducono anche in bassi consumi e quindi in un’economia che ristagna. E il rischio c’è, come si legge nel documento approvato. «Se uomini e donne che vivono più a lungo non restano anche in attività più a lungo e non risparmiano in misura maggiore per la pensione, l’adeguatezza delle pensioni non potrà essere garantita: l’aumento previsto delle spese si rivelerà, infatti, insostenibile». I numeri confermano il problema.

 

Entro il 2060, la speranza di vita alla nascita dovrebbe aumentare, rispetto al 2010, di 7,9 anni nei maschi e di 6,5 anni nelle femmine. E non è un problema lontano: è incombente, perché i figli del baby boom vanno in pensione e la popolazione attiva europea comincia a ridursi. Ciò significa che le persone di età superiore a 60 anni aumentano ogni anno di circa 2 milioni, quasi il doppio cioè rispetto alla fine degli anni ’90 e all’inizio del decennio successivo. Al contrario, il numero di persone in età lavorativa primaria (20-59) si ridurrà ogni anno nei prossimi decenni.

 

L’Italia, in questo senso è un laboratorio di sperimentazione di nuove forme di welfare. È tra i Paesi più vecchi al mondo, assieme al Giappone, la Corea del Sud e la Germania.

Già oggi le persone sopra i 65 anni sono il 30% della popolazione e nel 2030 ci saranno tre persone bisognose di cure ogni quattro adulti. «Questa non invidiabile posizione ci pone come front runner nella graduatoria demografica dell’Ocse al punto che l’Italia è considerata un laboratorio di osservazione e analisi dell’invecchiamento e delle possibili soluzioni. L’Italia», spiega l’Accademia dei Lincei che ha dedicato una giornata di studio, organizzata insieme all’Ocse e al ministero dell’Istruzione, proprio a questo argomento. L’obiettivo finale è produrre un documento, da proporre nei vari consessi internazionali, dal G8 al G20 all’Unione europea, presentando la proposta italiana di approccio globale e integrato per affrontare correttamente il problema dell’invecchiamento, che non è risolvibile nell’ambito di limitate azioni o politiche settoriali. «La proposta italiana ha già raccolto l’adesione preliminare di Giappone, Corea del Sud, Germania, Brasile, Irlanda e Ungheria. L’Italia si sta muovendo attivamente in questa direzione e il documento in preparazione rappresenta il primo passo verso un ruolo internazionale che può fare dell’Italia uno dei centri mondiali di indagine sui molteplici aspetti dell’invecchiamento della popolazione e sulle possibili soluzioni», spiega l’Accademia dei Lincei. Ma la particolarità dell’Italia non è soltanto un’età media della popolazione tra le più alte del mondo.

 

Dopo l’ultima riforma delle pensioni, quella targata Fornero del 2012, è anche il Paese che manda in pensione più tardi i suoi cittadini (grafico in pagina). L’età pensionabile salirà nel 2060 a quasi 70 anni, 10 anni in più rispetto al periodo ante riforma. Gli italiani sono ben consapevoli di dover lavorare fino a quell’età. Come emerge da un’indagine Mefop-Ipsos che fatto un sondaggio sugli effetti a un anno dall’entrata in vigore del decreto Salva Italia che ha rivoluzionato il sistema previdenziale italiano allungando l’età per la pensione e introducendo il sistema di calcolo contributivo per tutti. Dall’analisi Mefop risulta infatti che il 25% degli intervistati prevede di andare in pensione a 65 anni, mentre nel precedente sondaggio del 2006 la maggior parte (30%) aveva indicato in 60 anni l’età per il buen retiro. E c’è un altro 25% di lavoratori secondo i quali l’uscita dal lavoro sarà possibile solo dopo aver passato i 70 anni. La percentuale è più del triplo tre volte rispetto al 7% del 2006. Ma è sul fronte dell’entità dell’assegno pubblico che le note si fanno più dolenti, perché il 68% degli intervistati non indica il corretto calcolo della pensione. Anche da questa errata conoscenza della disciplina previdenziale discende che «i lavoratori hanno un’aspettativa sul trattamento troppo elevata e non c’è stata alcuna variazione rispetto al sondaggio del 2006», spiega il Mefop. Il 49% stima il proprio assegno tra i 600 e gli 800 euro al mese, proprio come sette anni fa. È addirittura in aumento la quota di coloro che pensano di percepire dallo Stato più di 800 euro: il 14% contro il 12% del 2006. E i lavoratori iscritti ai fondi pensione hanno un’aspettativa più alta: il 16% pensa di percepire oltre 800 euro al mese. «È l’effetto dell’allungamento dell’età pensionabile?», si interroga il Mefop chiedendosi se nelle attuali condizioni del mercato del lavoro possa ancora considerarsi valido l’assunto che a una carriera più lunga corrisponda una pensione più elevata. Così non sarà viste le discontinuità di carriera e la riduzione delle retribuzioni. Fatto sta che oltre a sovrastimare la pensione, prevalgono coloro che ritengono che la pensione pubblica sarà adeguata, soprattutto tra i non aderenti alla previdenza integrativa. Che non sono pochi visto che i fondi pensione oggi coprono un quarto della platea dei lavoratori interessati, cioè più di 22 milioni. Ma qualche segnale positivo si vede: dal sondaggio del Mefop risulta infatti che il 51% potrebbe aderire a una qualche forma di previdenza complementare, una percentuale in aumento rispetto al 22% del 2006 e al 45% del 2008. Chi ha scelto di restare fuori dai fondi pensione ha detto di averlo fatto soprattutto perché non ha la possibilità di risparmiare abbastanza (29%), ma anche perché non si fida degli investimenti finanziari (19%). C’è anche un 14% che si tiene fuori dai fondi pensione perché si ritiene ancora giovane ed è quindi troppo presto per pensarci. Eppure il fattore tempo è fondamentale per costruire una pensione di scorta. In tema previdenziale prima si parte meglio è.

MF-Milano Finanza ha chiesto alla società di consulenza indipendente Progetica di calcolare quale assegno possono aspettarsi i lavoratori e quanto devono risparmiare per avere un’adeguata integrazione. La società di consulenza ha stimato delle forchette sul valore dell’assegno pensionistico, basandosi su due valori di retribuzione mensile (1.500 e 3.000 euro). Sottolinea Andrea Carbone di Progetica: «Le variabili sull’evoluzione della carriera, dell’economia italiana e dell’allungamento della speranza di vita rendono necessaria una stima in un intervallo di valori all’avvicinarsi del momento della pensione le forchette si restringono». Dall’analisi emerge che se la stima dei 600-800 euro attesi dai lavoratori è troppo pessimistica per chi è dipendente, non lo è invece per gli autonomi. Come spiega Carbone: «Le stime per i dipendenti mostrano valori medi dell’assegno pensionistico superiori al 60-70%; per quanto riguarda gli autonomi invece, i valori medi si attestano intorno al 50% della retribuzione lavorativa». Il tutto poi con una precisazione: tutti i valori ipotizzano la continuità di carriera dai 25 anni fino all’età di pensionamento; qualsiasi eventuale buco contributivo avrebbe naturalmente effetti sull’importo della pensione. Per ogni anno di posticipo dell’inizio del lavoro il tasso di sostituzione lordo scende di due punti percentuali. E lo stesso accade in caso di buchi contributivi. Con un mercato del lavoro dove è sempre più difficile ottenere un contratto a tempo indeterminato e con una lunga fase di precariato in carriera c’è da chiedersi quanti saranno i fortunati che potranno contare su un assegno adeguato. Tanto più che per i lavoratori che hanno iniziato a versare i contributi dopo il primo gennaio del 1996 non è previsto alcun tipo di integrazione all’assegno pensionistico dallo Stato.

 

Da qui la necessità di un’integrazione che si fa sempre più pressante. Per questa ragione Progetica ha calcolato quanto bisogna versare ogni mese per avere 500 euro di rendita sempre mensile, al momento dell’addio al lavoro. Dai numeri emerge che aspettare ha un costo. Chi oggi ha 30 anni dovrà versare 241 euro se sceglie la linea bilanciata e 379 se sceglie la garantita. Per chi ne ha 40 il versamento sale a 396 euro per la bilanciata e 536 per la garantita. (riproduzione riservata)